Spread e deficit del 2,4 %, mettere al sicuro i risparmi

La prima cosa da notare è che le tensioni di questi ultimi giorni non hanno innescato alcun effetto domino su altri mercati, cosa successa in passato. Ne consegue che può stare tranquillo chi ha un portafoglio ben diversificato  per esposizione geografica.

“Chi rischia di più è chi non ha seguito la regola area della diversificazione ed è esposto principalmente sull’Italia. Maggiore è la quota di portafoglio investita in classi di investimento italiane, maggiore è il rischio di registrare perdite”.

Il primo consiglio per limitare i danni, scrive il quotidiano, è non prendere decisione avventate in preda all’emotività. Tradotto in soldoni non fare nulla, aspettare che la tempesta passi altrimenti si rischia di commettere danni peggiori. Un esempio? L‘errore più comune sarebbe liquidare i BTp in questi giorni. Anche nel caso delle azioni, continua Franceschi, è sconsigliabile vendere ora.

Infine per chi ha un mutuo in corso, la principale preoccupazione è che con l’aumento dello spread aumenti il tasso di interesse variabile. Ma la risposta è negativa perché le rate del mutuo sono indicizzate ai tassi Euribor il cui andamento dipende dalla politica monetaria della Bce e non dal mercato dei titoli di Stato. In prospettiva se aumenta lo spread l’impatto potrebbe essere sui nuovi mutui.

“Sconsiglierei di comprare oggi Btp italiani con lunga scadenza, per esempio a 10 anni, magari perché attratti da un rendimento del 3%. Il gioco non vale la candela”.

Il governo Salvini Di Maio, sul deficit hanno sforato il 2,4 %, questa mossa ha fatto traballare i mercati finanziari. C’è molta preoccupazione per la compattezza di titoli di Stato italiani, che portano lo spread sotto la soglia minima di sicurezza

In realtà quello su cui sono tutti d’accordo è che non debba salire il rapporto tra il debito e il Prodotto interno lordo. Questo è l’obiettivo che tutti si pongono, sia il governo sia l’Unione europea. Il deficit è la differenza tra ciò che lo Stato spende e ciò che lo Stato incassa nel singolo anno. Il debito invece è la somma di tutti i deficit. E siccome l’Italia ha accumulato un debito pubblico che è più del 130% del valore del Prodotto interno lordo, questo rapporto non deve più aumentare.

Ma come fa il debito a non crescere se si aggiunge altro deficit? Anche un piccolo disavanzo va comunque ad aggiungersi al debito precedente e quindi, apparentemente, fa crescere il suo rapporto con il Pil. Se però anche il Pil aumenta, se nella frazione debito/Pil cresce anche il denominatore, il rapporto può mantenersi stabile o ridursi. Ma quanto deve crescere il Prodotto interno lordo per fare in modo che il rapporto tra il debito e il Pil non cresca o, meglio ancora, diminuisca?

La risposta è in una equazione che gli economisti chiamano, appunto, equazione di stabilità del debito. «Questa equazione mostra che il rapporto tra il debito e il Pil di domani dipende anche da quello che è successo ieri, dalla grandezza del debito passato, e da quel che succede oggi», spiega Carlo Altomonte, che insegna Politica economica europea all’Università Bocconi di Milano. A influenzare il risultato finale, dunque, non è solo il deficit che si decide di accumulare oggi.

Conta il debito che già esiste: questo debito, che è un dato certo, va moltiplicato per il tasso di interesse che si paga sui titoli pubblici per sapere quanto lo Stato dovrà pagare il prossimo anno come interessi sui titoli pubblici.

Quindi conta anche il tasso di interesse: se il tasso di interesse sale, visto che il valore del debito passato è un dato, la spesa per gli interessi sale. È questo il motivo per cui l’aumento dello spread fa tanta paura. Aumento dello spread significa, in realtà, aumento del tasso di interesse sui titoli del debito pubblico. E se questo succede il disavanzo, il deficit, aumenta.

Conta il tasso di inflazione: l’inflazione riduce il valore reale del debito e quindi migliora la situazione. E poi conta il tasso di crescita del Pil, cioè quanto crescerà l’economia italiana. Se il Pil cresce, il rapporto debito/Pil si riduce.

Dunque contano un valore che non si può modificare (il debito passato), un dato che dipende da come si comporta il mercato (il tasso di interesse), e due dati che sono solo ipotetici e che dipendono da cosa si pensa che succederà il prossimo anno: il tasso di crescita dell’economia e il tasso di inflazione. Oggi le previsioni sono che il tasso di inflazione sarà circa l’1,5% e la crescita dell’economia sarà l’1,1%. Con questi valori e con un deficit che sarà al 2,4% del Pil secondo il professor Altomonte non c’è la certezza che il rapporto tra il debito e il Pil diminuirà. Se il rapporto tra il deficit e il Pil fosse stato all’1,9% o più basso, invece, la certezza ci sarebbe stata.

LO SPREAD FA LA DIFFERENZA

Consideriamo il termine spread: in inglese questa parola indica il diffondersi di qualcosa (una malattia, la democrazia in un paese totalitario, una salsa sulla carne ecc). In finanza esistono diverse accezioni, ma lo spread denota sempre un numero che misura una differenza fra altre due quantità. Un esempio tipico viene dalle transazioni economiche, nelle quali qualcuno vende e qualcun altro compra: chi vende pone un prezzo minimo, al di sotto del quale non cede il suo bene; chi compra pone invece un prezzo massimo, che è disposto a pagare per il bene stesso. Queste due quantità si chiamano rispettivamente ask e bid, e lo spread, cioè la differenza ask – bid, si dice in questo caso bid-ask spread: dato che il bid è in genere minore dell’ask, il bid-ask spread misura la capacità della transazione di essere effettivamente portata a termine, detta in gergo liquidità del mercato. Tuttavia l’accezione più famigerata (e, ahinoi, più attuale) del termine spread riguarda l’esempio dello spread fra BTP e BUND. In questo caso la differenza è fra il rendimento di titoli di stato di Paesi diversi della stessa zona euro, quello italiano e quello tedesco. Il BTP, infatti, è un “prodotto finanziario” emesso dallo Stato italiano, il cui orizzonte temporale è superiore ai dodici mesi (P sta per “pluriennale”), mentre il BUND è il suo analogo teutonico. Chi compra un BTP investe una somma di denaro (che gli sarà interamente restituita alla scadenza del contratto) che lo Stato incassa immediatamente, e in cambio della quale corrisponde all’investitore un certo interesse ogni sei mesi, la cedola, per tutta la durata del contratto (di solito 3, 5, 10 o 30 anni). Ma perché lo Stato dovrebbe pagare un investitore con delle cedole e non con un semplice tasso di interesse a scadenza? Questo succede perché l’investitore si assume un rischio, legato per esempio

alla possibile insolvenza da parte dello Stato che emette il titolo: se questo va in bancarotta, infatti, nessuno restituirà agli investitori i soldi con i quali hanno comprato i titoli – come sa bene chi ha investito nei bond argentini. Per questo motivo il rendimento di un titolo di stato, calcolabile in funzione della cedola e di altri parametri che vedremo in seguito, è tanto più basso quanto più è affidabile lo stato stesso: in altri termini, più uno stato ha probabilità di essere insolvente, più convenienti saranno i tassi corrisposti, per attrarre gli investitori in modo che siano disposti a rischiare. Il principio generale, cioè, è che non ci sono pasti gratuiti: se si vuole guadagnare ci si deve esporre a un rischio, e quanto maggiore è il rischio tanto maggiore è la possibilità di guadagno.

I Buoni del Tesoro danno interessi fino a oltre il 3%. Meglio puntare su quelli a scadenza breve

Spread che un giorno sale, spread che il giorno dopo scende. Da una settimana a questa parte, sui mercati finanziari si assiste di nuovo all’altalena dei prezzi dei titoli di stato italiani, soprattutto di quelli a lunga scadenza come i Btp ultradecennali.  Tutta colpa del braccio di ferro  tra il governo Lega-5Stelle e le autorità europee sul deficit e sulla manovra economica 2019, che ha fatto aleggiare ancora una volta lo spettro di un’uscita dell’Italia dall’euro. 

Prezzi giù, rendimenti su 

Le quotazioni dei Btp sono scese perché gli investitori considerano ora i nostri titoli di stato più rischiosi di prima. Chi li acquista adesso, proprio grazie al calo dei prezzi, porta a casa dei rendimenti più alti che nei mesi passati, ben superiori a quelli offerti dai titoli di stato di altri paesi. I Buoni del Tesoro con scadenza a 10 anni, per esempio, danno un interesse attorno al 3% lordo, che corrisponde a 2,5% circa al netto di tutte le tasse, comprese quelle per l’imposta di bollo. 

Conviene comprarli? In altri tempi molti gestori di fondi avrebbero risposto di sì, senza tentennamenti. Oggi, però, la situazione è ben diversa. Magari i mercati si stabilizzeranno e non succederà nulla di traumatico. Ma, per molti esponenti della comunità finanziaria, il rischio di un’uscita dell’Italia dall’euro è comunque da mettere in conto, con la conseguente ipotesi che i prezzi dei Btp colino a picco e i loro rendimenti salgano, costringendo il nostro Paese a pagare una montagna di interessi e in più e mettendolo in condizioni di non reggere il peso del debito pubblico.