Isola di plastica per accogliere i migranti realizzata con Stampante 3D

Liberare l’oceano dalla plastica, riciclandola per creare un’isola galleggiante in continua crescita. E accogliervi profughi e migranti in fuga dai loro Paesi, risolvendo così due problemi in un colpo solo. L’idea, una delle cinque vincitrici del concorso LA+IMMAGINATION per i migliori progetti di isole paradisiache, utopistiche e distopiche, è stata battezzata “United Plastic Nation” dai suoi progettisti, gli architetti Noel Schardt e Bjoern Muendner dello studio Freischaerler Architects. Secondo i due tecnici si dovrebbe trattare di una struttura galleggiante stampata in 3D da droni che riciclano la plastica trovata negli oceani. Una città autosufficiente (il cibo sarebbe coltivato in serre idroponiche verticali, l’acqua riciclata in sistemi chiusi, l’energia prodotta dalle maree) in continuo movimento, spinta dalle correnti attraverso gli oceani.

STAMPA 3D Una rivoluzione che cambierà il mondo?

Se ogni lavoro sulle nuove tecnologie nasce necessariamente con il peccato originale della obsolescenza istantanea, anche se programmato per essere in costante divenire (e in questo la pubblicazione on line è insostituibile strumento di aggiornamento), allora ciò è ancora più vero per quest’opera, che nasce con la vocazione quasi provocatoria di trattare da diversi punti di vista il tema della stampa 3D, sul quale ormai più che quotidianamente si leggono novità davvero straordinarie (anche nel senso strettamente etimologico del termine!), in relazione ad utilizzi immaginati qualche tempo fa solo dalla narrativa giudicata di fantascienza.

La nostra non è una variazione sul tema abusato della captatio benevolentiae, piuttosto una costatazione e, meglio, la spiegazione della natura dell’opera. Archiviate ansie di esaustività analitica abbiamo pensato di coltivare il terreno della interdisciplinarietà sintetica, che ci è parso essere ancora sperimentale con riferimento alla stampa 3D, innovazione suscettibile di costituire la summa delle opportunità e insieme delle criticità delle nuove tecnologie. Abbiamo, così, coinvolto studiosi, appassionati ed esperti di diversa estrazione e competenza e chiesto loro non tanto di spiegare la realtà, quanto di proporre temi e scenari in grado di aiutare il lettore a comprendere il fenomeno, facendo leva sulla complementarietà dei punti di vista differenti e sulla curiosità stimolata dal disporre di molteplici chiavi di lettura.

Il tentativo di fotografare la realtà proviene invece dai contributi della sezione esperienze, nella quale abbiamo dato la parola alle imprese, con l’obiettivo di descrivere la propria storia e di suggerire alcune fra le infinite applicazioni della tecnologia della stampa 3D. Quello che si dice per le enciclopedie si può dire, mutatis mutandis e ben più modestamente (e, prima ancora, diversamente), anche per quest’opera, il cui piano ambizioso contempla un lavoro in divenire con l’aggiornamento costante dei contributi esistenti e l’inserimento di nuovi, con l’obiettivo di ampliare lo spettro della ricerca ad altri ambiti (ad esempio, tra i tanti, la filosofia del diritto, il diritto del lavoro, la sociologia, sia economica che del lavoro, la chimica dei materiali).

Non deve stupire che l’idea dell’opera provenga da giuristi; ci pare anzi che la curiosità di conoscere fenomeni e di individuarne le implicazioni sulla persona, sulla società e sui relativi rapporti, sia un indispensabile spunto non tanto per discutere sul governo dei medesimi (come il giurista normalmente pretende di fare), quanto per cercare di scoprirli nella realtà (come ci ha insegnato e raccomandato Bruno Leoni), per quanto assurdo questo verbo possa suonare se associato alle nuove tecnologie. A maggior ragione non possiamo concludere questa breve prefazione senza ringraziare con convinzione gli autori degli interventi, che hanno aderito all’iniziativa lasciando i lidi della ricerca più sicura e tranquilla per addentrarsi in terreni parzialmente inesplorati, e ai quali abbiamo lasciato ampia libertà di utilizzare forme e strumenti di indagine ritenuti più appropriati o comunque più conformi al proprio spirito.

Trattandosi di una collettanea di contributi, provenienti da Autori che operano in settori disciplinari differenti, si è ritenuto di non svolgere l’usuale editing che tende a uniformare e omologare il più possibile i testi, ma di lasciare libertà redazionale agli Autori medesimi, con la conseguenza che certe espressioni vengono utilizzate da taluni in maniera difforme (si veda, per tutti, la sigla relativa alla stampa, da qualcuno indicata con 3d, da altri con 3D, da altri ancora anteponendo alla sigla la preposizione “in”). Stesso dicasi per le citazioni, da alcuni indicate col corsivo, da altri con le virgolette alte o caporali, da altri ancora con un uso difforme dei margini (in questo caso ridotti).

Si è anche scelto di non utilizzare il corsivo per le parole straniere, tenuto conto della grande quantità di termini presenti nel testo in lingue differenti dall’italiano, al fine di non appesantire la forma e rendere il tutto più fruibile. In corsivo si sono lasciati, pertanto, solo termini in latino e parole in italiano che, per significato e pregnanza, gli Autori hanno deciso di sottolineare con tale forma. I siti Internet si è scelto di indicarli omettendo http://www, lasciando la sola sigla www per indirizzi lunghi, articolati e complessi. Il tutto, si rimarca ancora, non nasce da incuria o disattenzione dei redattori, ma prende vita da una discussione di redazione, che ha pensato di privilegiare l’autenticità e l’originalità dei contributi, al fine di esaltare l’individualità e l’interdisciplinarietà di questo volume, che vorrebbe essere, anche per questi motivi, un unicum in Italia.

Vivere una rivoluzione Non capita tanto spesso di essere immersi in una rivoluzione dei processi produttivi e di potersene rendere conto con i propri occhi. Nei decenni recenti qualcosa del genere è accaduto solo con la diffusione progressiva dei personal computer, che a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta hanno profondamente mutato il modo di lavorare e poi di vivere – specie ora che di fatto il computer davvero personal è lo smartphone che portiamo in tasca – per milioni di persone. Gli anni Dieci di questo secolo sono segnati da una profonda rivoluzione nella distribuzione della capacità produttiva, che progressivamente si sposta dalla fabbrica tradizionale con le sue linee di montaggio a strutture più piccole ed elastiche, delocalizzate e addirittura talvolta virtuali, grazie alla potenza delle connessioni digitali. Il fattore scatenante di tutto questo è la diffusione delle tecniche di produzione additiva: è il cosiddetto Additive Manufacturing, che quasi sempre viene identificato con la stampa 3D.

Questa diffusione, unita alla nascita di software di progettazione e design sempre più semplici da usare e persino gratuiti, sta già permettendo a piccole aziende e a singoli imprenditori di avviare processi produttivi estremamente elastici proprio perché slegati dai vincoli tradizionali della catena di montaggio e della produzione di massa. È già possibile oggi gestire produzioni di piccoli lotti di oggetti, al limite anche singoli pezzi realizzati on demand, a costi contenuti e una volta impensabili, usando stampanti 3D proprie o, più efficacemente per ora, servizi di stampa 3D conto terzi che producono gli oggetti in pochi giorni e li consegnano in tutto il mondo altrettanto velocemente. Anche negli ambiti più tradizionali l’Additive Manufacturing sta trovando largo impiego uscendo da quello che negli ultimi anni è stato il suo uso più tipico, ossia la prototipazione rapida. La stampa 3D permette infatti di realizzare oggetti con forme che sarebbero impossibili da ottenere mediante il classico stampaggio a pressione di plastiche o metalli fusi, come anche consente di costruire come blocchi unici oggetti che di norma nascono dall’assemblaggio di più componenti, con implicazioni ovvie e importanti per quanto riguarda la robustezza complessiva degli oggetti stessi. Per capire meglio tutte queste implicazioni, però, conviene esaminare la stampa 3D da un punto di vista più tecnico.

Strato per strato La stampa 3D è una tecnica di tipo additivo perché gli oggetti vengono realizzati progressivamente strato per strato, a differenza di altre tecniche cosiddette sottrattive perché arrivano al prodotto finale eliminando materiale da un blocco di partenza, come accade ad esempio per il tornio. Sintetizzando e semplificando molto, l’oggetto da stampare viene progettato con un software di CAD o modellazione tridimensionale, poi viene suddiviso virtualmente in “fette” orizzontali di spessore ben inferiore al millimetro. Questa scomposizione in strati sottilissimi viene opportunamente convertita in un file di dati comprensibili per una stampante 3D, che provvede a realizzare i singoli strati uno per uno. Dato che ognuno di essi è generato usando materiale plastico o metallico portato ad alta temperatura, ogni singolo strato si fonde automaticamente con quelli sottostanti man mano che viene completato. Oggi questo modello generico di lavoro si declina essenzialmente in due tecniche: il SLS (Selective Laser Sintering) e il FDM (Fused Deposition Modeling). Nel primo sistema un raggio laser opportunamente pilotato colpisce uno strato di polvere, plastica o metallica, finissima: nel punto colpito dal raggio la polvere si fonde e costituisce un punto (solido) corrispondente al punto virtuale del singolo strato dell’oggetto progettato. Completato uno strato dell’oggetto si depone un nuovo strato di polvere e il raggio laser “disegna” lo strato successivo dell’oggetto, e così via fino all’ultimo. Liberato della polvere in eccesso, a questo punto il nostro oggetto è pronto.

Il FDM è una tecnica molto più economica che ricorda il funzionamento di una classica stampante a getto d’inchiostro per documenti cartacei. Stavolta a tracciare i punti degli strati di un oggetto è una testina di stampa – in gergo tecnico un estrusore – che deposita piccolissime gocce di materiale plastico fuso (che entra nell’estrusore sotto forma di filamento proveniente da una vera e propria bobina). Anche in questo caso ogni goccia si fonde con le sue vicine per l’alta temperatura a cui è depositata. Da queste descrizioni un (bel) pò riduttive – i dettagli tecnici sottostanti sono molti di più ma vanno oltre l’ambito di queste pagine – si cominciano a intuire le principali differenze tra i due sistemi. Il laser sintering, o sinterizzazione, garantisce un’alta precisione di tracciamento e permette di utilizzare qualsiasi materiale che possa essere in qualche modo ridotto in polveri “laserabili”. Con la sinterizzazione si producono oggetti tanto in materiali plastici quanto in leghe metalliche, con una precisione e un’efficacia tali che lo stesso ente spaziale americano, la NASA, usa questa forma di manufacturing additivo per alcuni componenti dei propulsori dei vettori spaziali di nuova generazione. In campo medicale, per fare un altro esempio immediato, si usa già da tempo la sinterizzazione di polimeri plastici sensibili fotosensibili, usando un raggio ultravioletto invece di un laser, per la produzione di protesi dentarie. Dal canto loro le stampanti a deposizione di materiale plastico fuso pagano il fatto che un estrusore non sarà mai veloce e preciso quanto un raggio laser: sono quindi molto più lente e assai meno precise. Anche la scelta dei materiali da usare è più limitata, perché quasi sempre è ridotta all’ABS, una plastica molto diffusa e di derivazione petrolio, e al PLA, una plastica di derivazione vegetale e per questo biodegradabile.

L’asso nella manica – vincente quando si tratta di applicazioni di fascia (relativamente) bassa – delle stampanti a deposizione è il costo: se una unità in sintering ha un cartellino del prezzo nell’ordine dei 100-150mila euro – e da qui a salire – una stampante FDM è un oggetto volendo anche “personal”, da 1.500-2.000 euro per i prodotti commerciali più noti a 500-600 per chi ha le competenze e la passione di assemblarne una a mano partendo dai componenti di un progetto open source. Basteranno questi prezzi a portare una stampante 3D su ogni scrivania? Probabilmente no, perché nella gran parte dei casi non ce ne sarà bisogno. Da un lato i principali servizi di stampa 3D (ad esempio, tra gli altri, Shapeways, i.Materialise, Ponoko) stanno abbassando i loro costi e semplificando le loro procedure, in modo che utenti mediamente tecnici possano stampare ad alta qualità i loro oggetti senza investire in macchinari. Dall’altro lato cresce costantemente il numero dei Fablab presenti sul territorio: sono centri aperti al pubblico che possono acquistare stampanti di fascia anche media e metterle a disposizione dei visitatori, in una logica di condivisione delle risorse che ben si adatta alle nuove logiche di produzione decentrata e che permette di ammortizzare i costi d’acquisto delle stampanti “distribuendoli” nel tempo e su un gran numero di utenti. Per un verso o per un altro, quindi, man mano che il concetto stesso di stampa 3D e gli strumenti software a essa necessari raggiungeranno un pubblico più ampio, saranno anche già disponibili i centri stampa, fisicamente vicini o lontani poco importa, per produrre oggetti.