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Il calcio è di tutte e tutti, semplicissimo nelle sue infinite possibilità. Nonostante la mutazione graduale e i cambiamenti tecnologici che ormai hanno allargato sempre di più la forbice tra il professionismo e il dilettantismo, il calcio rimane uno sport praticabile da chiunque in qualunque angolo del globo. Ricordo ancora un campo da calcio in terra battuta a oltre 4000 metri d’altezza in Cile dove – per l’aria rarefatta – anche solo passeggiare richiedeva uno sforzo doppio per i polmoni. Però che importa se c’è da inseguire un pallone e fare un gol che potrebbe essere il più importante del mondo. E guardando i calciatori la speranza che davvero chiunque partendo anche dal basso (anche se si cantava che uno su mille ce la fa) può arrivare a diventare un professionista è una delle poche cose positive ancora rimaste dentro il grande business del football. Non tutti ce la fanno, ma tutti possono avere qualche possibilità. Il talento arriva nei posti più impensabili e senza una logica comprensibile e senza guardare il conto in banca, per fortuna.

Jean-Paul Sartre, figlio dell’alta borghesia francese, e Albert Camus (nato povero) sono stati amici, ma per colpa delle interpretazioni ideologiche hanno poi litigato. Quando Camus è morto in un incidente stradale esattamente sessantuno anni fa (era il 4 gennaio del 1960) Sartre ha scritto un meraviglioso epitaffio. Sartre – parlando del loro rapporto – ha detto che tra loro due la differenza è sempre stata che Camus ha assorbito la cultura crescendo, partendo dal basso e, invece, lui ha avuto il privilegio di esserci immerso dall’età di due anni.
Ragionavo su queste parole e a volte mi sento – con le dovute proporzioni – nella situazione di Camus. Mio nonno è analfabeta, contadino che era legato a quello che – ancora oggi – chiama padrone. Mio padre era operaio, anche lui ha iniziato a lavorare da adolescente.

A volte – e lo dico con un briciolo di amarezza – mi sembra di dovermi sentire in colpa per essere riuscito ad arrivare fino a dove sono adesso. Una parte di me si sente colpevole, quella colpevolezza cattolica che mi segue da quando sono nato.

A volte mi sembra che – come cantava Battisti in una sua celebre canzone – qualcuno non voglia farmi entrare. Perché “odoro di gente che non conta niente”. Eppure riesco a superare questo senso di colpa perenne grazie alla consapevolezza che per riuscire a fare quello che volevo ci ho messo tanto lavoro. D’altronde senza il lavoro il talento è un impasto senza cottura e tanti calciatori dotati di un’enorme capacità non sono riusciti ad arrivare ai livelli che avrebbero potuto. Altri con il duro lavoro sono riusciti a ritagliarsi un posto importante. Ma è bello che sia così: imprevedibile come un pallone che rotola e a volte prende dinamiche strane che nessuno avrebbe mai pensato.

Una giovanile ingenuità. Così il Napoli ha risolto il caso-Osimhen, con annessa multa che sarà elevata all’attaccante tornato dalla Nigeria con una positività al Covid. La sanzione rappresenta un atto dovuto, alla luce del protocollo di comportamento che tutti gli atleti firmano nel momento in cui vengono tesserati dal club: Osimhen aveva partecipato a una festa a sorpresa che gli aveva organizzato un suo amico deejay, Golden Michael, in occasione del suo compleanno.

Festa iniziata alla mezzanotte del 28 dicembre (Osimhen il 29 dicembre ha compiuto 22 anni) e nel corso della quale tutti gli invitati si erano presentati senza indossare le mascherine. Il giovane Victor è stato incastrato dalle immagini pubblicate sul profilo Instagram dello stesso deejay (@officialgoldenmichael), con scene che testimoniano l’assenza di distanziamento e altre goliardiche con il lancio di gruzzoli di banconote da parte di Osimhen e dei suoi amici. L’attaccante azzurro era tornato a casa per il Natale, dopo aver trascorso un periodo di cure ad Anversa, dove martedì sera era rientrato, per poi organizzare il viaggio in Italia.

Giovedì a Napoli è stato sottoposto a quel tampone risultato positivo al Covid che avrà contratto nella sua vacanza nigeriana e da ieri è costretto all’isolamento nella sua abitazione napoletana. Dovrà restarci per un paio di settimane, durante le quali si allenerà sul tapis roulant che il club gli ha messo a disposizione e non potrà ritornare alla clinica belga “Move to cure”, dove era previsto che completasse il lavoro di recupero al braccio destro. Osimhen è asintomatico e non ha avuto nessun contatto con gli altri compagni di squadra e i tempi del suo recupero potrebbero allungarsi con il rischio che debba saltare anche la finale di Supercoppa contro la Juventus, in programma a Reggio Emilia il 20 gennaio.

Se così fosse, sarebbero ben 16 le partite giocate dal Napoli senza poter disporre dell’attaccante che questa estate era stato preso dal Lille nell’ambito di una operazione del valore di 80 milioni di euro. Un bel problema per Rino Gattuso, che sperava di riavere nei prossimi 10 giorni l’attaccante che lo aveva convinto a cambiare il modulo dal 4-3-3 al 4-2-3-1. La prima mossa del club è stata quella di rilanciare Llorente, tolto dal mercato almeno fino a quando non saranno recuperati del tutto sia Osimhen che Mertens. A proposito del belga, il suo ritorno a Napoli è previsto tra oggi e domani. Ipotesi di rientro in squadra: il 17 gennaio contro la Fiorentina. Ringhio spera di recuperare un po’ prima Koulibaly.

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