Benzina e diesel aumento da settembre: le regioni più care

Sembrerebbe essersi fermato l’aumento dei prezzi di benzina e diesel, messi in attonel mese di agosto. Nelle scorse settimane i principali distributori di carburante hanno applicato un “surplus” di un centesimo per ogni litro, per poi bloccarsi. In attesa di scoprire la tendenza delle prossime settimane, con diversi analisti convinti che i prezzi torneranno a crescere a settembre, scopriamo insieme quali sono a tutt’oggi le regioni più care in tema di benzina e diesel.

Ma questa non sembra essere l’unica motivazione, infatti anche le quotazioni internazionali dei prodotti raffinati hanno subito leggeri rialzi.Stando alla consueta rilevazione di Staffetta Quotidiana, questa mattina Eni ha aumentato di un centesimo al litro i prezzi consigliati di benzina e gasolio. Stesso rialzo anche per IP, Italiana Petroli e Tamoil.

La stangata però potrebbe arrivare proprio adesso. Il prezzo del diesel e della benzina sta iniziando a salire in maniera decisa in questi giorni, a spingere sono le quotazioni internazionali dei prodotti raffinati. Rispetto all’inizio del mese di agosto, oggi queste quotazioni sono aumentate in maniera evidente, soprattutto per quanto concerne il gasolio.

Dopo il giro di rialzi di ieri, torna questa mattina la calma sui listini dei prezzi consigliati dei carburanti, mentre sui prezzi praticati alla pompa iniziano a vedersi gli effetti degli aumenti. Queste sono le medie dei prezzi praticati comunicati dai gestori all’Osservatorio prezzi del ministero dello Sviluppo economico ed elaborati dalla Staffetta, rilevati alle 8 di ieri mattina su circa 14mila impianti: benzina self service a 1,635 euro/litro (+1 millesimo, pompe bianche 1,614), diesel a 1,508 euro/litro (+2, pompe bianche 1,489). Benzina servito a 1,750 euro/litro (+2, pompe bianche 1,659), diesel a 1,627 euro/litro (+1, pompe bianche 1,533). Gpl a 0,658 euro/litro (invariato, pompe bianche 0,645), metano a 0,963 euro/kg (invariato, pompe bianche 0,953). Quanto ai prezzi nelle diverse Regioni, a Bolzano e Trento troviamo il gasolio più caro (media a 1,582 euro/litro e 1,549 euro/litro), seguono Basilicata e Friuli Venezia Giulia (1,526 euro/litro). Il diesel meno caro è nelle Marche (1,492 euro/litro), in Veneto e Campania (1,494 euro/litro). La “classifica” viene stilata sulla base del prezzo del gasolio perché in diverse Regioni è in vigore un’imposta addizionale sulla benzina che “falsa” il confronto.

Benzina sintetica, la grande rivoluzione marchiata Audi

In un mondo sempre più inquinato automobili e Fabbriche, l’ecosostenibilità ormai entrata a far parte del nostro modo di pensare. Se non si vuole distruggere del tutto quel poco di aria buona che ancora ci rimane, le aziende produttrici mobili devono assolutamente adeguarsi fabbricando nuovi modelli di auto sostenibili, ed è per questo che la grande azienda Audi ha deciso investire su un progetto molto ambizioso cercando di riprodurre un tipo di benzina sintetica.

Oggi vogliamo parlarvi di una novità nonchè di  una innovazione piuttosto interessante non solo per l’ecologia, ma anche per le prestazioni e per i costi. Stiamo parlando della benzina sintetica, della quale alcuni forse ne hanno già sentito parlare mentre altri ancora no. I vantaggi che ne deriveranno saranno davvero innumerevoli. Proprio con l’arrivo del biometano e del diesel pulito sembra sia in arrivo anche la benzina sintetica che è stata inventata ma farà la sua comparsa a breve. Questa novità è stata annunciata direttamente dalla casa automobilistica Audi che risulta essere quella che durante gli ultimi anni ha più investito sui motori a benzina e su quelli diesel, Ma adesso è pronta a dare una svolta decidendo di puntare sui carburanti ecosostenibili. L’Audi dunque ha deciso di mettersi all’avanguardia e per questo motivo ha pensato alla benzina sintetica con un vantaggio non soltanto a livello di costi, ma anche di impatto ambientale.

Ma di cosa si tratta? Si tratta di un carburante che viene ricavata direttamente dalle sostanze di scarto come sono ad esempio le biomasse ovvero dai rifiuti biodegradabili dell’Agricoltura. Le aspettative riguardo questo tipo di benzina sono piuttosto alte. All’interno di questa benzina sintetica non sarà presente lo zolfo e il benzolo e questo fa sì che ci siano livelli di emissione nell’atmosfera molto bassi. Non finisce qui perché la casa automobilistica Audi sta anche collaborando con Global bioenergies, Ovvero la società che  ricava il suo gasolio dagli scarti di agricoltura proveniente dalla Francia.

Quindi a breve la casa automobilistica ha fatto sapere di voler utilizzare soltanto l’idrogeno e l’anidride carbonica per poter ottenere questa benzina sintetica che non si sa se potrà essere utilizzata anche per le autovetture che già esistono o se sono necessarie  delle modifiche. Si tratta ad ogni modo di un progetto piuttosto ambizioso e proprio mentre molte altre case automobilistiche Stanno pensando a produrre dei veicoli elettrici, l’Audi è impegnata in questo progetto davvero innovativo.

L’Audi si pone dunque un solo obiettivo ovvero quello di testare lo sviluppo dei motori con un elevato rapporto di compressione, migliorando l’efficienza complessiva. Non è di certo la prima volta che questa casa automobilistica tedesca ha mostrato interesse per l’innovazione e la ricerca, ed infatti è dal 2014 che  un team è stato incaricato di portare avanti degli Studi per creare un veicolo rispettoso e quanto più possibile dell’ambiente cercando di lavorare a trovare una soluzione per i diesel, che si basa su una tecnologia che utilizza gli elettroliti e l’anidride carbonica, presente nell’aria per potere realizzare un carburante pulito. E voi avete mai sentito parlare di benzina sintetica? Cosa ne pensate?

Biometano si concretizza con Panda, grande rivoluzione totale

Sino a fine marzo la Fiat Panda è in promozione, con il contributo della Casa e dei concessionari aderenti. Per la precisione, viene proposta la Panda Pop 1.2 da 69 CV Euro 6 a benzina a un prezzo promo di 8.950 euro, IPT e contributo PFU (smaltimento pneumatici) esclusi. Attenzione: l’offerta è valida in caso di permuta (la vettura deve essere di proprietà dell’intestatario da almeno 3 mesi) o rottamazione. In basso esaminiamo pro e contro di un esempio di finanziamento coi parametri che possono cambiare in base alle esigenze del consumatore: parliamo di anticipo, rate, Valore Garantito Futuro pari alla maxirata finale. Salvo approvazione FCA Bank.

Da un anno una Fiat Panda viaggia alimentata esclusivamente con biometano prodotto dall’impianto per la depurazione delle acque reflue del Gruppo CAP a Bresso-Niguarda (Milano). Nel marzo 2017 l’auto partì dal Mirafiori Motor Village di Torino per partecipare al progetto #BioMetaNow, che vede come protagonisti FCA e il Gruppo CAP, insieme con LifeGate, il network che opera in Italia per lo sviluppo sostenibile.

Da allora la Panda Natural Power ha percorso migliaia di chilometri, sempre alimentata con il biometano prodotto da acque reflue senza evidenziare controindicazioni né effetti sul motore, al pari del gas prodotto da rifiuti agricoli e solidi urbani. La Panda #BioMetaNow in questi mesi è stata regolarmente verificata attraverso approfonditi test effettuati presso il Centro Ricerche di FCA per confermare che l’uso del biometano non comporta per il motore alcuna differenza rispetto al gas naturale di origine fossile.

La prima prova è stato il controllo delle emissioni allo scarico sul banco a rulli, per valutare l’efficienza del catalizzatore; la seconda è stato il controllo del motore per esaminarne le prestazioni.
Questo primo anno di sperimentazione – spiega FCA – cade negli stessi giorni in cui il Ministero dello sviluppo economico ha approvato il decreto interministeriale per la promozione dell’uso del biometano e degli altri biocarburanti avanzati nel settore dei trasporti. Con questo decreto il nostro Paese – già all’avanguardia in Europa – si pone l’obiettivo di raggiungere nel 2020 il 10% di consumo di energie rinnovabili nel settore dei trasporti.

Che cos’è il biometano? Il termine Biometano si riferisce a un biogas che ha subito un processo di raffinazione per arrivare ad una concentrazione di metano del 95% ed è utilizzato come biocombustibile per veicoli a motore al pari del gas naturale (o metano fossile). Il biogas è prodotto attraverso la decomposizione biologica della sostanza organica in assenza di ossigeno in un processo conosciuto come Digestione Anaerobica (DA). La DA può avvenire in ambiente controllato (digestore) con una produzione di biogas con percentuale di metano pari al 55-65%, o anche nelle discariche in seguito alla decomposizione dei rifiuti: in questo caso il biogas o gas da discarica contiene una percentuale di metano pari al 45%.

Il biogas grezzo può essere bruciato per produrre calore o elettricità dopo aver subito minimi trattamenti di filtrazione e depurazione. Produrre il Biometano Le principali materie prime utilizzabili nel processo di DA sono: • Refluo di fogna • Reflui zootecnici • Rifiuti alimentari di origine commerciale o domestica (FORSU1 ) • Rifiuti da giardinaggio e gestione del verde • Produzioni agricole dedicate Anche colture specifiche come gli erbai da foraggio o il silomais2 possono essere convenientemente utilizzate per il processo di DA. Tuttavia, la materia prima più comune in Europa è il refluo di fogna, utilizzato in un trattamento di DA integrativo del processo di depurazione. In Gran Bretagna circa il 75% dei reflui fognari è trattato in questo modo, ed il gas che ne deriva è utilizzato per produrre calore ed elettricità. A Lille, in Francia, il sistema fognario cittadino è fonte di materia prima per produrre biogas che è successivamente raffinato per essere utilizzato come combustibili per gli autobus. Le altre fonti di materia prima citate non sono integrate in un sistema di raccolta così capillare come per i reflui civili e quindi è necessario affrontare le problematiche relative al loro collettamento di volta in volta. I rifiuti dell’agricoltura o le colture dedicare possono essere trattati in loco in piccoli digestori, come accade in Germania o in Italia, ma il processo è più efficace se si concentrano reflui e residui agricoli provenienti da più fonti in un unico impianto consortile. Per utilizzare il rifiuto alimentare (FORSU) è basilare separarlo dalle altre tipologie di rifiuto; per questo è conveniente realizzare un impianto di DA integrato in un sito di trattamento dei rifiuti.

Il biometano viene prodotto attraverso un processo costituito da 3 fasi: • Pre-trattamento – questa fase comprende qualsiasi tecnica di selezione, triturazione e miscelazione della materia prima (rifiuto organico) per renderla più adatta possibile al digestore; • Digestione – è il processo principale durante il quale la sostanza organica è trasformata in biogas e digestato che è il residuo finale del processo; • Raffinazione – questo è il processo in cui il biogas grezzo è trasformato in un combustibile ad alto contenuto di metano (≥ 95%) eliminando la CO2 ed altre impurità e contaminanti. Il processo di digestione dura circa 15-20 giorni a seconda della materia prima e della tecnologia utilizzata.

Le principali tipologie di DA sono: • Processo termofilo e mesofilo – il processo mesofilo si svolge a una temperatura di circa 35°C, mentre il sistema termofilo prevede un riscaldamento della massa da digerire fino a temperature attorno ai 55°C, in questo modo il processo di digestione avviene più velocemente e con maggiori rese. • Sistemi a singolo stadio o multistadio – un digestore a singolo stadio svolge tutte le fasi del processo di digestione in un unico vascone, mentre il digestore multistadio ottimizza il processo in diversi vasconi (predigestore, digestore, postdigestore). • Sistemi in batch (discontinui) o Sistemi in continuo – come suggerisce la definizione alcuni sistemi funzionano in modalità discontinua: in questo caso la materia prima è caricata nel digestore in una sola tornata e viene asportata completamente una volta trascorso il tempo di ritenzione necessario, mentre i sistemi a flusso continuo comportano un’introduzione continua di materia prima nel sistema ed una contemporanea estrazione di gas e digestato. La quantità di biogas prodotto, e la percentuale di metano contenuta nel biogas, dipendono sia dalla materia prima impiegata che dalla tecnologia di conversione utilizzata. In generale i reflui fognari, il liquame e il letame tendono a produrre meno gas del rifiuto di origine alimentare, ed i digestori mesofili monofase producono meno biogas dei digestori termofili multistadio. I digestori più semplici che trattano reflui fognari possono produrre 100 m3 di metano per tonnellata di refluo, laddove impianti centralizzati più sofisticati che trattano svariati tipi di rifiuti possono generare circa 300 m3 di metano per tonnellata di rifiuto trattato3 . Oltre al biogas il processo di DA produce il digestato come residuo finale composto da una frazione solida e da una liquida. Questo sottoprodotto può essere utilizzato a determinate condizioni come fertilizzante4 organico da distribuire sul terreno in sostituzione di fertilizzanti chimici.

Il Biometano come carburante di veicoli a motore Il biometano può essere utilizzato negli stessi veicoli che impiegano comunemente il gas naturale o metano di origine fossile. Le tre tipologie di veicoli, che utilizzano metano, attualmente in commercio sono: • Veicoli Bi-Fuel (Bi-fuelled) – è la tecnologia più diffusa ed è utilizzata per le automobili e veicoli promiscui alimentati a gas o a benzina. Sono equipaggiati con motore a ciclo Otto (accensione per scintilla) e un doppio sistema di alimentazione che può funzionare sia con gas che con benzina. Il veicolo è quindi in grado di funzionare con entrambi i combustibili. • Veicoli dedicati a gas – sono veicoli dotati di un motore a ciclo Otto (accensione per scintilla) ottimizzato per funzionare con il solo metano. Questa tecnologia è utilizzata spesso nel caso di veicoli pesanti come gli autobus in sostituzione dei motori a gasolio convenzionale. • Veicoli dual-fuel – sono veicoli a gasolio che utilizzano un motore diesel e funzionano con una miscela di gas e gasolio (solitamente 70% gas e 30% gasolio).

Il combustibile può essere immagazzinato nel veicolo in due stati: compresso o liquefatto. Più comune è l’utilizzo in forma compressa, come gas naturale compresso (CNG). Il gas è compresso nei serbatoi ad alta pressione, circa 200 bar. Tuttavia, a parità di volume, il contenuto energetico del gas compresso è significativamente inferiore rispetto al contenuto energetico di un combustibile liquido come il gasolio. Un’alternativa è quindi quella di immagazzinare il gas in forma liquefatta, gas naturale liquefatto (LNG). In questo caso il gas viene raffreddato, oltre che compresso, per raggiungere lo stato liquido e allo stesso modo viene stoccato in serbatoi ad alta pressione raggiungendo una densità energetica superiore. Questo fa si che, sempre a parità di volume, il contenuto energetico del LNG sia maggiore di quello del CNG. Se paragonato ad un veicolo a gasolio, un veicolo a gas è meno efficiente di un 15-20%, a causa della minor densità energetica del gas compresso. Questo problema è stato parzialmente risolto con la produzione di gas liquefatto. Le problematiche principali legate all’utilizzo sia del biometano che del metano di origine fossile sono però legate al minor contenuto energetico che si traduce in minor percorrenza con un litro di combustibile e alla rete di distribuzione che è sicuramente limitata rispetto a quelle dei combustibili liquidi tradizionali. Questo spiega come mai i principali utilizzatori di gas siano le flotte di veicoli dedicati come camion o autobus.

La disponibilità di veicoli a gas varia da paese a paese, riflettendo lo sviluppo dei singoli mercati nel paese di riferimento, ma in generale è commercializzata una vasta gamma di veicoli. Per esempio autovetture a gas sono distribuite dai varie costruttrici europee come Fiat, Opel, PSA, Ford, VW, Mercedes e Volvo. Biometano: contenuto energetico ed emissioni Il biometano è un valido combustibile e brucia in modo efficiente nei motori. In termini di emissioni dirette di CO2 il biometano emette il 20% in meno rispetto alla benzina e il 5% in meno rispetto al gasolio. Tuttavia, il vero vantaggio del biometano è evidente quando si considera l’intero ciclo di vita del combustibile, come indicato nel grafico seguente, e si prende atto che la CO2 emessa dalla combustione del biometano è rinnovabile.

Biometano: aspetti economici E’ disponibile una letteratura molto vasta sui costi di produzione e di vendita del biometano come combustibile per veicoli a motore. Forse i dati più attendibili si riferiscono alla Svezia, che vanta il mercato di biometano per trasporti più sviluppato in Europa. Nel Paese scandinavo i costi variano fra 0.65 e 0.75 €/kg escluse le tasse. Per un confronto più immediato è però necessario parlare di costo per unità di energia: in questo caso il costo di produzione scende a 0.47-0.57 €/litro di gasolio equivalente che deve essere confrontato con il costo del gasolio fossile pari a 0,75 €/l (escluse le tasse). In vari paesi la tassazione sul biogas è inferiore rispetto a quella sulla benzina e sul gasolio fossile e quindi c’è un evidente vantaggio nell’utilizzo del biometano. Tuttavia, il costo dei veicoli a biometano è più alto se paragonato ai veicoli convenzionali a causa dei differenti serbatoi e dei sistemi di gestione del gas. I costi aggiuntivi per veicolo dipendono da paese a paese a seconda dello sviluppo del mercato locale, ma presumibilmente rientrano in questi intervalli: • Automobile e veicoli leggeri: €3,000 – €6,000 • Veicoli pesanti dual-fuel (motore a ciclo Diesel): €30,000 – €40,000 • Veicoli pesanti con motore a ciclo Otto: €35,000 – €50,000 Questi extra-costi sono attualmente elevati ed anche con adeguati incentivi e detassazioni i veicoli sarebbero comunque molto costosi, anche se ci si aspetta che i prezzi scendano con l’espansione del mercato. Alcune stime indicano inolter che per diventare competitivi questi veicoli dovrebbero avere una percorrenza media annua di almeno 50.000 km o più. Biometano: sommario • Il biometano è prodotto dalla raffinazione del biogas in metano al 95% • Il biogas è prodotto dalla digestione anaerobica di reflui civili e agricoli, da rifiuti alimentari e da biomasse dedicate • Il biometano è utilizzabile nei veicoli al pari del gas naturale o metano fossile • C’è una buona disponibilità di veicoli a metano sul mercato Europeo anche se con evidenti differenze da paese a paese • I costi di investimento di questi veicoli sono superiori rispetto a quelli dei veicoli a benzina o a gasolio, ma i prezzi inferiori del combustibile potrebbero incidere positivamente nel bilancio economica • Il biometano genera emissioni di gas serra inferiori del 75% – 200% rispetto ai combustibili fossili.

Da qualche tempo a questa parte si parla sempre più spesso di come rendere migliore l’aria che respiriamo, soprattutto nei centri delle nostre città. Per raggiungere questo obiettivo, o quanto meno per avvicinarlo, sono state proposte soluzioni molto diverse tra loro, tutte valide, in maggior parte centrate su come modificare il sistema di trasporti per diminuirne l’impatto ambientale. Per questo si parla sempre più spesso di car sharing, car pooling, incentivi alle auto elettriche, ecc. Da convinti metanisti, però, non possiamo fare a meno di ribadire l’importante contributo che potrebbe essere apportato dai veicoli a metano per diminuire l’impatto ambientale dei trasporti su strada. Come? E’ molto semplice.

A parte le qualità ecologiche del metano (di cui si è ampiamente discusso e che sono ormai, si spera, di dominio comune) sarebbe opportuno agire per favorire una maggiore diffusione di soluzioni tecnologicamente all’avanguardia e particolarmente rispettose dell’ambiente ed efficienti come il biometano. Di biometano si è parlato, per l’appunto, al BioMetano Day, evento organizzato da FCA Group e tenutosi a marzo presso la sede di CNH Industrial di Torino. Una giornata con in programma un convegno informativo ed escursioni a due siti produttivi piemontesi di biometano, finalizzata a illustrare come oggi, in Italia, il biometano rappresenta una soluzione tecnicamente pronta per la produzione e la distribuzione sul mercato. Non parliamo solo di biometano, però, in questo numero di Metauto Magazine.

Parliamo anche di metano liquido e ne parliamo diffusamente. Vi raccontiamo quale è il ruolo della Spagna per la diffusione di questa soluzione particolarmente adatta alla mobilità degli autocarri pesanti; in Italia, poi, sono già partiti alcuni progetti per la realizzazione di impianti di distribuzione (progetti su cui forniamo un report), e cioè in Lombardia ed in particolare in provincia di Lecco ed in Valtellina; vi raccontiamo anche le ultime novità per ciò che riguarda i veicoli pesanti a metano liquido. Restando in Italia, un approfondimento che trovate su questo numero di Metauto riguarda il self service per i distributori di metano: un’opportunità senza dubbio importante, ma che per i soliti paletti di una normativa che non rispecchia quelle in vigore nel resto d’Europa, rischia di rappresentare l’ennesima occasione di sviluppo persa o comunque non sfruttata a dovere. Andiamo fuori dall’Italia: in Russia ed in Ucraina, ad esempio, per capire come l’evoluzione delle relazioni tra queste due nazioni possa influenzare la sicurezza energetica europea; e poi andiamo a Parigi, per scoprire quale ruolo abbiano i veicoli a metano nella riorganizzazione logistica della capitale francese; e poi, ancora, andiamo in Bolivia, per parlare di come il metano sia ritenuto un asset importante per lo sviluppo di questa nazione. Non mancano in questo numero le prove su strada: il nuovo VW Caddy e la Skoda Citigo. E infine, le consuete rubriche: metano nel mondo, metano al cinema, incentivi ed il listino prezzi.

Il surriscaldamento del Pianeta dovuto ai cambiamenti climatici impone il progressivo passaggio verso un’economia a basso uso di combustibili fossili, che sono i principali imputati dell’effetto serra. Si tratta di una transizione necessaria per ridurre le emissioni di anidride carbonica in atmosfera, transizione che coinvolge pure il settore dei trasporti, responsabile secondo l’International Energy Agency del 25% del rilascio di CO2 in Europa.

A rendere auspicabile l’adozione di  soluzioni a basso impatto ambientale contribuiscono ragioni sanitarie ed economiche. L’uso dei derivati del greggio, infatti, produce sostanze inquinanti nocive per la salute e comporta, di conseguenza, anche un consistente innalzamento della spesa pubblica per la sanità. I limiti di elettrico e idrogeno La ricerca di soluzioni alternative ai carburanti tradizionali è avviata da tempo e oggi punta soprattutto su due tecnologie “vettoriali”, quella elettrica e quella a idrogeno. Sebbene si tratti di approcci efficaci per superare i limiti insiti nei carburanti tradizionali, le due proposte presentano ancora diverse problematiche. Il sistema a batterie fornisce ancora veicoli troppo costosi e dall’autonomia sufficiente soltanto per gli spostamenti urbani.

A preoccupare è pure la possibile crescita della domanda di energia necessaria per rifornire gli accumulatori, aumento che potrebbe favorire l’impiego di fonti dannose, come il carbone, facendo peggiorare le emissioni “dalla fonte alla ruota”, ossia generate durante l’intero ciclo energetico compreso tra la produzione del “combustibile” e i gas di scarico. Per essere realmente a emissioni zero, infatti, la mobilità elettrica dovrebbe essere alimentata esclusivamente da “corrente” proveniente da fonti rinnovabili come eolico, fotovoltaico o idroelettrico. Biometano, il futuro Altro problema riguarda gli accumulato ri e, in particolare, l’impatto ambientale per l’estrazione dei minerali necessari per costruirli e lo smaltimento degli stessi a fine vita. Indentiche considerazioni, ancor più problematiche, riguardano l’idrogeno, vettore energetico che aggiunge un ulteriore limite: la necessità di realizzare una costosa infrastruttura per il rifornimento. Una soluzione di nome biometano Se elettrico e idrogeno sono le opzioni più perseguite, esistono altre soluzioni alternative al petrolio, quali i carburanti sintetici e il biometano. Al momento i primi sono ancora a livello sperimentale e richiedono ulteriori sviluppi, nonché analisi più approfondite sull’effettiva efficacia, ossia la verifica se la quantità di energia necessaria per la produzione sia sostenibile a livello energetico.

Viceversa, il “gas naturale” proveniente da fonti rinnovabili è tecnicamente pronto per la produzione e la distribuzione sul mercato. A frenarlo, al momento, è la sola legislazione che ne vieta l’immissione in rete ostacolando un prodotto con risvolti positivi su ambiente, economia e occupazione. Benefici di non poco conto, che i responsabili del Gruppo FCA hanno voluto rimarcare organizzando il BioMetano Day, evento tenutosi a marzo presso la sede di CNH Industrial di Torino. Una giornata con in programma un convegno informativo ed escursioni a due siti produttivi piemontesi di biometano che ha fornito diverse informazioni di rilievo che vi sveliamo in una serie  di tre articoli, il primo dei quali è dedicato ai vantaggi apportati dall’uso di biometano nel settore dell’auto. Biometano come elettrico A tracciare le doti del biometano è Daniele Chiari, Product Planning & Institutional Relations di FCA Emea, ricordando che il gas naturale consente risparmi sul rifornimento fino al 56% rispetto alla benzina e fino al 30% nei confronti del gasolio. Percentuali che potrebbero risultare più alte in quanto calcolate in un periodo con i prezzi dei carburanti tradizionali bassi. All’aspetto economico si aggiunge quello ecologic, poiché il metano “è il carburante più pulito oggi disponibile ed è l’unica reale alternativa alla benzina e al gasolio, con una riduzione di emissioni di CO2 del 23 per cento rispetto al funzionamento a benzina, e fino al 15 per cento in meno rispetto al funzionamento a gasolio sui mezzi pesanti, e con minime emissioni nocive: dal particolato, ridotto praticamente a zero, agli ossidi di azoto e agli idrocarburi più reattivi che causano la formazione di altri inquinanti”.

Qualità che migliorano con il biometano, soprattutto nel computo dalla fonte alla ruota. Secondo i dati forniti da Chiari, una Fiat Panda a metano ha emissioni del 31% inferiori a quelle del corrispettivo modello a benzina, valore che sale al 57% miscelando al gas naturale il 40% di biometano. Si tratta di una riduzione, di fatto, equivalente a quella ottenuta da una vettura elettrica ricaricata con l’attuale mix energetico europeo. L’abbattimento delle emissioni rispetto alla Fiat Panda a benzina considerata può raggiungere il 97% utilizzando il 100% di biometano, eguagliando il risultato conseguito da una vettura elettrica rifornita con “corrente” proveniente al 100% da fonte eolica. Pronto all’uso Fattore a favore del biometano è l’essere pronto all’uso. Compatibile con le auto a metano in commercio, non richiede di modifiche ai motori in quanto la composizione della sua molecola è del tutto assimilabile a quella del gas naturale. In verità, rispetto a quest’ultimo contiene percentuali inferiori di idrocarburi incombusti e altre impurità che rendono le emissioni allo scarico ancora più “pulite”. Di rilievo è pure l’esistenza di una rete di infrastruttura già ramificata, se si escludono alcune zone come, ad esempio, la Sardegna dove non esistono distributori. In compenso la rete, oggi costituita da oltre 1.100 stazioni di servizio, è in costante crescita e già sufficiente per assicurare un’elevata mobilità grazie pure all’autonomia dei veicoli a gas, solitamente superiore ai 300 km. Un’espansione della rete che potrebbe essere intensificata proprio dalla rimozione degli ostacoli al biometano. Semplificare le norme burocratiche per l’apertura di siti e definire le norme per la produzione e l’immissione in rete del biometano favorirebbe l’apertura di nuovi distributori in prossimità dei siti stessi e non solo. E contribuirebbe a raggiungere diversi obiettivi, come la riduzione di inquinanti e gas serra del settore trasporti e il raggiungimento degli obiettivi imposti dall’Unione europea di avere entro il 2020 almeno il 10% di biocombustili sul totale dei carburanti utilizzati.

Alla fine dell’Ottocento il carbone, un combustibile fossile solido, era praticamente l’unico combustibile usato nel mondo; il carbone era noto da secoli e sul suo uso si era fondata, nel 1700 e nel 1800, la prima rivoluzione industriale. Il petrolio era stato scoperto soltanto nella meta’ del 1800 e alla fine del 1800 la separazione dal petrolio greggio di varie frazioni liquide, come benzina e oli carburanti, era ancora nella sua infanzia. Del resto la richiesta industriale di carburanti liquidi è rimasta limitata fino a quando, negli ultimi anni del 1800, È stato perfezionato il motore a scoppio – un dispositivo che non può funzionare con il carbone, ma che deve bruciare combustibili liquidi.

Quando, agli inizi del Novecento, il motore a scoppio è stato applicato ai veicoli, ad un veicolo “automobile”, la richiesta di combustibili liquidi È rapidamente aumentata, e di conseguenza è aumentata la richiesta di petrolio greggio e si sono moltiplicati i pozzi e le raffinerie. L’avvento dell’epoca dell’automobile e del petrolio ha spostato gli equilibri geopolitici mondiali. I giacimenti di petrolio si trovano in alcune aree – America settentrionale, centrale e meridionale, Medio Oriente, sud-est asiatico, Russia – per lo più diverse da quelle in cui si trovano i grandi giacimenti di carbone. La rivoluzione industriale, basata sul carbone, era stata una rivoluzione europea, che aveva visto come protagonisti i paesi carboniferi: Germania, Francia, Inghilterra, Russia; con l’era del petrolio il centro dello sviluppo industriale ed economico passava in America, dove si trovavano i pozzi petroliferi (allora) ricchissimi. Proprio in un periodo in cui le grandi potenze europee – Francia, Germania, Inghilterra – si disponevano alla conquista del mondo, questi stessi paesi si trovavano ad essere privi della principale materia prima necessaria per i nuovi mezzi di trasporto. Era abbastanza naturale che proprio in Germania, dove le ambizioni imperialistiche coincidevano con un formidabile potenziale scientifico e industriale, gli industriali e gli scienziati si siano chiesti se non fosse possibile trasformare il carbone solido in combustibili liquidi. In definitiva la differenza fra i due tipi di combustibili dipende dal contenuto di idrogeno: i carboni sono costituiti da grandi molecole composte da carbonio combinato con pochi atomi di idrogeno, circa un atomo di idrogeno ogni due atomi di carbonio, mentre i prodotti petroliferi sono molecole composte da carbonio combinato con più idrogeno, circa due atomi di idrogeno ogni atomo di carbonio.

Trattando il carbone con idrogeno (un gas che si ottiene industrialmente da varie fonti, fra l’altro per scomposizione dell’acqua che contiene due atomi di idrogeno per ogni atomo di ossigeno) si sarebbero dovuti ottenere dei composti liquidi con le proprietà dei prodotti petroliferi. La via dell’idrogenazione del carbone fu affrontata da Friedrich Bergius (1884-1949) alla vigilia della prima guerra mondiale nel corso della quale avrebbero fatto il loro debutto tre nuovi formidabili strumenti militari, tutti funzionanti a benzina o a derivati del petrolio: le automobili e i camion, i carri armati (o tanks, come si chiamavano allora), e gli aeroplani. Le guerre nel Novecento sarebbero state vinte dal petrolio. Bergius aveva lavorato nei laboratori di due giganti della chimica tedesca, H.W. Nerst (1864-1941) e Fritz Haber (1868-1934) (tutti e due premi Nobel) che nei primi anni del 1900 avevano inventato un processo per produrre sinteticamente l’ammoniaca, essenziale per gli esplosivi e i concimi, dalla combinazione sotto pressione di idrogeno e azoto. L’invenzione dell’ammoniaca sintetica avrebbe liberato la Germania dalle importazioni di materie prime essenziali per la guerra; le tecniche impiegate per produrre l’ammoniaca sintetica avrebbero potuto essere applicate anche per trasformare il carbone in idrocarburi. Bergius cominciò i suoi esperimenti in un proprio laboratorio ad Hannover nel 1910 e riuscì a ottenere dei prodotti petroliferi sintetici nell’estate del 1913.

In pochissimi mesi, con pochi collaboratori, con limitati investimenti, Bergius riuscì a identificare quali tipi di carbone consentivano di ottenere maggiori quantità di benzina e in quali condizioni la produzione era maggiore. Nel 1914 Bergius cominciò a collaudare il processo su scala produttiva in una piccola raffineria di petrolio di Essen; il 1 agosto dello stesso anno scoppiava la prima guerra mondiale. La guerra fu vittoriosa per la Germania fino al mese di settembre 1914 quando la controffensiva francese sulla Marna fermò quella che sembrava una inarrestabile avanzata tedesca su Parigi. Gli alti comandi tedeschi capirono che la vittoria sarebbe dipesa dalla produzione industriale di esplosivi, macchine, carburanti e finanziarono senza economia lo sviluppo di nuove tecniche e processi. Nel 1916 Bergius poté costruire uno stabilimento vicino a Mannheim, ma l’importanza dell’idrogenazione del carbone passò in seconda linea dopo che la Germania ebbe conquistati i giacimenti petroliferi romeni. Nel 1918, con la sconfitta della Germania, cominciò un lungo periodo di crisi. L’invenzione di Bergius comunque sembrava importante anche in un periodo di libero mercato e Bergius interessò dei finanziatori tedeschi e olandesi che gli consentirono di costruire e far funzionare, negli anni 1922-1925, una vera fabbrica capace di produrre benzina sintetica dal carbone. Gli studi sull’idrogenazione del carbone furono condotti in Inghilterra, negli Stati Uniti, pur ricchi di petrolio naturale, e anche in Italia, ma Bergius fu il primo a dimostrare che il processo poteva essere applicato su scala industriale.

Nel 1925 la produzione di benzina sintetica attrasse l’attenzione della grande compagnia tedesca Badische Anilin und Soda Fabrik (la BASF, che esiste ancora oggi e che molti lettori conoscono come produttore, fra l’altro, di nastri per registratori). La Germania in questi anni 20 era colpita da una terribile inflazione e da crisi politiche; in questi tempi turbolenti i proprietari delle grandi industrie chimiche tedesche, fra cui la BASF, decisero di fondere le proprie società e di creare, il 9 dicembre 1925, un gigantesco “cartello” monopolistico che prese il nome di IG Farben (abbreviazione di raggruppamento dell’industria dei coloranti e dei prodotti chimici). Veniva così creato il più grande gruppo industriale del mondo che si sarebbe trovato direttamente coinvolto anche nell’avvento del nazismo in Germania e nella seconda guerra mondiale. Il direttore generale della IG Farben era Carl Bosch (1874-1940) l’uomo che aveva messo a punto il processo di sintesi dell’ammoniaca. Bosch prese vigorosamente in mano lo sviluppo del processo Bergius; nell’aprile 1927 fu avviata la costruzione a Leuna della prima grande fabbrica di benzina sintetica che nel 1931 era in grado di produrre 300.000 tonnellate di benzina sintetica all’anno.

Nello stesso 1931 a Bosch e Bergius venne assegnato il premio Nobel per la chimica. Quasi negli stessi anni in cui Bosch inventava il sistema di idrogenazione del carbone, altri due chimici tedeschi, Franz Fischer (1877-1947) e Hans Tropsch (1889-1935), inventavano un differente processo di produzione della benzina sintetica. In tale processo il carbone È dapprima trattato con vapore acqueo ad alta temperatura; si ottiene così una miscela di ossido di carbonio e di idrogeno. Modificando opportunamente le proporzioni di questi due gas e sottoponendo la nuova miscela ad alta temperatura in presenza di catalizzatori, si ottengono degli idrocarburi simili a quelli presenti nella benzina. A partire dal 1925 il processo Fischer-Tropsch era applicato su scala industriale e si affiancava a quello Bergius per la produzione di benzina sintetica. Si stavano però preparando per la Germania anni drammatici, destinati ad avere conseguenze sull’industria tedesca e anche sulle stesse vicende personali di questi scienziati. Qualche lettore ricorderà forse che nel 1987 Raiuno trasmise a puntate uno sceneggiato intitolato: “Padri e figli fra due guerre” (con Burt Lancaster). Si trattava della storia di una famiglia di grandi industriali tedeschi che attraversa, lungo mezzo secolo, il dramma del nazismo e di due guerre mondiali. Un osservatore attento avrebbe potuto riconoscere che la storia ricalcava eventi veri, fra cui l’invenzione della benzina sintetica, della gomma sintetica e l’uso che il nazismo fece della grande industria tedesca nella preparazione della seconda guerra mondiale. Quando il colosso chimico tedesco IG Farben iniziò la produzione di benzina sintetica, agli inizi degli anni Trenta, dal punto di vista strettamente economico fabbricava una merce che costava di più della benzina ottenibile in abbondanza dal poco costoso petrolio americano. L’industria avrebbe potuto sopravvivere soltanto se protetta con sovvenzioni governative, e queste non tardarono a venire.

Nel 1933 Hitler salì al potere in Germania con un programma che prevedeva, a breve distanza, una guerra che avrebbe consentito alla Germania di vendicarsi della sconfitta del 1918. Hitler capì subito che la guerra avrebbe richiesto un gigantesco impegno industriale anche per rendere autonoma la Germania dalle importazioni di alcune materie strategiche, fra cui il petrolio e la gomma. Già alla fine del 1933 il ministero dell’economia del terzo Reich e le industrie IG Farben si accordarono per la produzione entro il 1935 di 400.000 tonnellate di benzina sintetica all’anno fino al 1944; lo stato avrebbe pagato alla IG Farben la differenza fra il costo di produzione e il prezzo sul mercato libero della benzina, impegnandosi a comprare la benzina eventualmente invenduta, in modo da assicurare in ogni modo un profitto agli azionisti della IG Farben. Nel settembre 1936 Hitler annunciò il suo piano quadriennale alla fine del quale la Germania avrebbe dovuto essere pronta per la guerra, con una economia resa indipendente dalle importazioni. In tale piano un ruolo importante aveva la benzina sintetica fabbricata sia col processo Bergius, basato sulla idrogenazione del carbone, sia col processo FischerTropsch di sintesi degli idrocarburi da una miscela di ossido di carbonio e idrogeno ottenuta anch’essa dal carbone, materia prima abbondante in Germania. Con il finanziamento governativo furono costruite varie fabbriche di benzina sintetica. In questa operazione fu coinvolta anche l’Italia dove fu creata l’ANIC, Azienda Nazionale Idrogenazione Combustibili, per trasformare i carboni e i bitumi in benzina.

Furono costruiti due stabilimenti gemelli, uno a Livorno e uno a Bari. Il programma di produzione di benzina sintetica, sostenuto dal governo fascista, prevedeva, dopo la conquista dell’Albania, di sottoporre a idrogenazione i bitumi, delle specie di petroli di pessima qualità, molto viscosi, esistenti in quel paese. I processi di idrogenazione a Bari mossero pochi limitati passi (dove saranno gli archivi e i documenti di quel periodo ?); lo stabilimento fu acquistato, dopo la Liberazione, dalla Standard Oil, la proprietaria della società petrolifera Esso, e, col nome Stanic, funzionò come raffineria fino alla fine degli anni settanta del Novecento, quando fu chiusa. Lo stabilimento Stanic di Livorno ha funzionato sempre soltanto come raffineria di petrolio. Ma torniamo agli anni Trenta del Novecento: la produzione di benzina sintetica, allo scoppio della seconda guerra mondiale, il 1 settembre 1939, era, in Germania, già di alcune centinaia di migliaia di tonnellate all’anno. Lo sforzo continuò negli anni successivi e nel 1944 la produzione di benzina sintetica con i processi Bergius e Fischer-Tropsch raggiunse i tre milioni di tonnellate all’anno; di queste, due milioni di tonnellate erano di benzina ad alto numero di ottano adatta per i motori da aviazione. I nomi di alcune di queste fabbriche suscitano ricordi terribili; uno degli stabilimenti di benzina sintetica e di gomma sintetica si trovava ad Auschwitz ed usava, come mano d’opera, prigionieri antifascisti e ebrei, di fatto schiavi, catturati in tutti i paesi d’Europa. In questa fabbrica lavorò, come deportato ebreo, Primo Levi che era un chimico e che parla a lungo di questa esperienza nei suoi drammatici libri: “Se questo È un uomo” e “Il sistema periodico”. Il carbone, il sangue e uno sterminato dolore erano le materie prime per questa gigantesca impresa industriale.

Le fabbriche di benzina sintetica furono esposte ai bombardamenti alleati, quella di Leuna, una delle più grandi, fu distrutta il 12 maggio 1944. Gli Stati Uniti sapevano che la Germania aveva fatto nel settore chimico, meccanico, industriale, grandi progressi, anche se pagati dal dolore di innumerevoli persone, e organizzarono delle squadre di scienziati e ingegneri che, dopo lo sbarco alleato in Europa, seguivano – in qualche caso precedevano – l’avanzata delle truppe in modo da occupare gli stabilimenti e sequestrare, prima che andassero distrutti, gli archivi, i materiali di laboratorio, le informazioni. Alla fine della guerra, nel maggio 1945, gli Alleati avevano così a disposizione un’ampia documentazione. Con la conferenza di Potsdam del 16 luglio 1945, gli Alleati imposero ai tedeschi la cessazione di qualsiasi attività nel campo della produzione di benzina sintetica dal carbone. Nell’aprile del 1949 gli alleati ordinarono lo smantellamento degli impianti, ma – in seguito al miglioramento dei rapporti con la Germania – l’ordine fu revocato nel novembre dello stesso anno; gli impianti furono così trasformati in raffinerie di petrolio. Gli stabilimenti che si trovavano nella zona di occupazione sovietica furono utilizzati per alcuni anni anche dopo la guerra o furono trasferiti nell’URSS. Sembrava che la storia della benzina sintetica fosse destinata all’oblio quando si verificò, nel 1973, l’aumento del prezzo del petrolio, prima di tre volte e poi di dieci volte. Forse la trasformazione del carbone in benzina diventava di nuovo conveniente e il Dipartimento dell’energia degli Stati Uniti incaricò alcuni scienziati di esplorare fra i rotoli di microfilm, su cui erano stati copiati i documenti sequestrati nelle fabbriche tedesche durante gli ultimi mesi della seconda guerra mondiale, per vedere se ci fosse qualche scoperta dimenticata, qualche invenzione segreta.

Questa esplorazione fra le invenzioni naziste ha ispirato nel 1977 a Steve Shagan un bel romanzo “giallo” intitolato: “La formula”, pubblicato in Italia dalla BUR e da cui è stato tratto un film con Marlon Brando. La trama immagina che un ufficiale americano nel 1945, alla fine della seconda guerra mondiale, sia entrato in possesso di documenti in cui È spiegata “la formula” segreta di un catalizzatore per ottenere benzina sintetica dal carbone. Nel 1974, dopo l’aumento del prezzo del petrolio, uno dei protagonisti vorrebbe vendere la formula alle compagnie petrolifere occidentali, inseguito dagli emissari dei paesi petroliferi arabi che vedrebbero svanire i loro guadagni se gli occidentali riuscissero a produrre benzina sintetica a basso prezzo dal carbone. Di sicuro l’esame degli archivi delle industrie tedesche di guerra non ha svelato nessuna innovazione rivoluzionaria. È perfettamente possibile anche oggi ottenere, per varie vie, per idrogenazione diretta o indiretta del carbone, benzina, il cui prezzo però è più elevato di quello della benzina ottenuta dal petrolio. L’operazione sarebbe conveniente soltanto in un paese con una economia chiusa, priva di petrolio e con grandi riserve di carbone; È stato il caso del Sud Africa, nel quale per molti anni hanno funzionato stabilimenti di produzione della benzina dal carbone col processo Fischer-Tropsch. Gli impianti, denominati Sasol, per alcuni decenni hanno prodotto dal carbone anche i due terzi del fabbisogno sudafricano di prodotti petroliferi. Ma è proprio davvero chiusa la tecnologia della trasformazione del carbone? La combustione diretta del carbone comporta l’inquinamento dell’atmosfera a causa dei derivati dello zolfo, delle polveri, delle sostanze cancerogene, dei metalli tossici. Le leggi sempre più rigorose per la lotta all’inquinamento atmosferico hanno perciò indotto gli scienziati a studiare nuovi metodi di trattamento del carbone in modo da ottenere combustibili meno inquinanti. A maggior ragione le norme antinquinamento impediscono di utilizzare i carboni più ricchi di zolfo e di ceneri che sono molto abbondanti sulla Terra. Anche in Italia, nel bacino sardo del Sulcis, si trovano carboni di qualità merceologica scadente, che contengono dal 6 all’8 per cento di zolfo e circa il 20 per cento di ceneri; tali carboni praticamente non possono essere bruciati direttamente, benché le loro riserve siano molto grandi: un miliardo di tonnellate, equivalente, come valore energetico, a 400 milioni di tonnellate di petrolio. Le tecniche di idrogenazione consentirebbero di trasformare in combustibili liquidi o gassosi, non inquinanti, questa risorsa carbonifera sarda, inutilizzata da trenta anni. Su scala mondiale le riserve di carbone contengono cinquanta volte più energia di tutte le riserve di petrolio, gas naturale e uranio messe insieme. Dai tempi in cui Bergius, Fischer e Tropsch fecero i loro primi esperimenti sono stati fatti grandi progressi nelle sintesi ad alta pressione, nell’uso dei catalizzatori; è perciò possibile che i processi di trasformazione dei carboni in altri combustibili siano destinati ad avere nuova vita, sia per la scarsità del petrolio, sia per la crescente importanza della difesa dell’ambiente. Forse si tratta di rimettersi di buona lena a studiare i caratteri e sperimentare nuovi processi sul carbone, la più abbondante fonte di energia esistente nel mondo, dopo l’energia solare.

Trasformare l’auto in un veicolo ibrido-solare. Il progetto, nato nell’Università di Salerno, ha superato la prima selezione di Horizon 2020

Il progetto per trasformare un veicolo normale in un ibrido-solare, risparmiando energia, soldi e tagliando le emissioni, è italiano e arriva da Salerno. Un gruppo di lavoro dell’Università di Salerno guidato da Gianfranco Rizzo, coordinatore dei corsi di ingegneria meccanica e gestionale, ha infatti realizzato il progetto HySolarKit che potrà permettere a un veicolo Euro 3 di diventare un Euro 4, accedendo così alle Ztl. Per chi guida normalmente in città, il risparmio può arrivare al 20%, con un costo stimato del kit di circa tremila euro. Dopo alcuni anni di lavoro, e grazie ad un primo finanziamento del Miur, è stato brevettato e realizzato un sistema di ibridazione per le vetture a trazione anteriore che prevede l’inserimento di motori elettrici sulle ruote posteriori e di una batteria addizionale al litio, che trasforma l’auto in un 4×4 ibrido. Un cavo inserito nella porta della diagnostica (Obd) è collegato al sistema di controllo che comanda le ruote elettriche. “Il sistema – spiega Rizzo – non richiede il montaggio di sensori ulteriori, non impatta sullo stile di guida e non tocca la centralina originale, cosa che avrebbe potuto causare la perdita della garanzia”. L’integrazione con il fotovoltaico avviene tramite pannelli flessibili ad alto rendimento, prodotti dall’italiana Enecom, che ricoprono cofano e tetto. In questo modo, il veicolo può operare sia in modalità elettrica che in modalità ibrida, conservando in tal caso autonomia e prestazioni del veicolo originario: anzi, con un plus di accelerazione fornito dai motori elettrici, e con un avanzato controllo del veicolo grazie alla trazione integrale. La batteria ausiliaria può essere ricaricata sia dalle ruote posteriori (frenata rigenerativa) sia dai pannelli solari, che possono fornire anche più di 1 kWh al giorno. La realizzazione del primo prototipo, montato su una Fiat Punto, non ha evidenziato particolari criticità di funzionamento. È stata fondata la società di spin-off eProInn Srl, che ha candidato con successo il progetto alla fase 1 del programma Horizon 2020 (Sme Instrument). La proposta, che si avvale della consulenza di CiaoTech, vede la collaborazione di Actua, spin-off del Politecnico di Torino titolare di un brevetto per integrare il motore elettrico nel disco freno, di Landi Renzo, leader nella produzione di impianti a metano e Gpl, che lavora a un progetto di ibridazione (Hers) complementare con HySolarKit, e l’interesse di investitori cinesi e maltesi. Preliminari indagini di mercato hanno evidenziato una buona attitudine dei potenziali utenti verso l’acquisto del kit e l’integrazione con il fotovoltaico. I ricercatori salernitani hanno presentato i loro studi in numerose sedi internazionali e ricevuto diversi riconoscimenti. Rizzo è inoltre tra i promotori del progetto “Mobidic – Mobility Digital Center”, un’iniziativa per la costituzione in Campania di un Polo industriale ad alta tecnologia sulla mobilità sostenibile.

LE EMISSIONI DELLE AUTO ENDOTERMICHE Ciò che esce dal tubo di scarico delle auto endotermiche è davvero una miscela velenosa, che ogni anno in Europa provoca 467mila morti premature (i dati sono forniti dal rapporto “Qualità dell’aria in Europa 2016”, firmato dall’Agenzia europea per l’ambiente, Eea). Monossido di Carbonio E’ incolore, inodore, insapore, tossico e molto insidioso se inspirato.Si lega allo ione del ferro nell’emoglobina del sangue, impedendo l’arrivo dell’ossigeno nei tessuti. E’ sufficiente una concentrazione dell’1,28 % in natura per provocare uno stato di incoscienza. Idrocarburi incombusti Gli idrocarburi incombusti sono composti chimici costituiti da carbonio (C) e idrogeno (H). Alcuni di questi composti, come il benzene, sono cancerogeni. Il benzene, in particolare, se assorbito nel sangue può anche favorire l’insorgere di malattie ematologiche gravi, come la leucemia. Pericolosi anche i policiclici o Ipa (Idrocarburi Policiclici Aromatici), come il benzopirene. Ossidi di azoto Sono molecole composte da Azoto (N) e Ossigeno (O). Producono nell’uomo affezioni dell’apparato respiratorio aggravando significativamente le condizioni delle persone affette da asma. L’esposizione, anche per soli quindici minuti, a concentrazioni di NOx maggiori di 5 ppm determina tosse persistente e irritazione delle mucose delle vie aeree. Ossidi di zolfo (SOx) Il biossido (SO2) e il triossido di zolfo (SO3) sono i principali inquinanti atmosferici a base di zolfo. Il primo irrita le vie respiratorie e può causare faringiti, affaticamento e disturbi a carico dell’apparato sensoriale. Particolato (pm) Il particolato raccoglie tutte le particelle solide e liquide generate nel processo di combustione e portate in sospensione nell’aria dai gas di scarico. Vengono suddivise in base al diametro e quelle più pericolose per la salute umana sono quelle micrometriche, con diametro fra 0.5 e 10 μm e con alto contenuto di carbonio elementare prodotto dalla combustione4 . Queste potrebbero determinare patologie acute e croniche a carico dell’apparato respiratorio (asma, bronchiti, allergia, tumori) e cardio-circolatorio (aggravamento dei sintomi cardiaci nei soggetti predisposti). In Italia, secondo il rapporto Ispra 2016 “Qualità dell’Ambiente Urbano”, a superare ripetutamente il valore limite giornaliero sono i Comuni concentrati nelle regioni della Pianura Padana, caratterizzate da condizioni di maggiore stagnazione rispetto ad altre zone del Belpaese, tutte le province campane. Male anche Roma, Frosinone, Palermo e Siracusa.

Definiamo l’auto elettrica Negli ultimi anni i veicoli ibridi hanno conquistato sempre più quote di mercato. Si tratta di auto che sono sì provviste di batteria, ma questa va ad integrare una motorizzazione termica assistita. Nonostante la presenza di un motore/generatore elettrico e di una piccola batteria, non è possibile definire questa vettura elettrica in senso stretto. E allora, prima di addentrarci nel pieno di questa argomentazione, è bene definire le diverse tipologie di auto elettrica: Veicoli ibridi Plug-in (PHEV) Sono i veicoli ibridi, ovvero con doppia fonte di potenza per la propulsione, una elettrica ed una con motore termico (che nel sistema ibrido – parallelo è connesso alle ruote motrici) la cui batteria, normalmente dimensionata per una autonomia di poche decine di chilometri, può essere ricaricata dalla rete elettrica. Una volta scaricata la batteria – o non appena raggiunto un livello di carica minimale (30-40% del suo contenuto energetico), il veicolo, secondo il tipo di gestione del sistema, entra in funzionamento ibrido “normale”, analogo a quello dei veicoli ibridi non ricaricabili. Con un dimensionamento della batteria atto ad erogare un’autonomia di 30 km, si potrebbero soddisfare ad “emissioni zero” circa il 60% dei bisogni di mobilità delle automobili in Italia5 . Diverse auto di questo tipo hanno autonomia in funzionamento elettrico anche superiore a 50 km.

Veicoli ibridi Range-Extended (REEV) Sono veicoli ibridi con due motorizzazioni (una elettrica di trazione ed una endotermica di ricarica). Anche in questo caso la batteria, normalmente dimensionata per una autonomia attorno al centinaio di km o più, è ricaricabile dalla rete elettrica; una volta scarica, entra in azione un generatore elettrico alimentato dal motore endotermico di bordo che provvede al reintegro della batteria. In questo modo di funzionamento il veicolo si muove con il motore elettrico, o con più motori elettrici collegati alle ruote, ma opera in definitiva attraverso il carburante di bordo, anche se con minori emissioni rispetto al veicolo puramente endotermico convenzionale, perché il motore del REEV lavora ad un regime ottimizzato, con la batteria che agisce da livellatore dell’energia, che viene in parte trasferita alle ruote e in parte immagazzinata nella batteria stessa. Ve ne sono in commercio con autonomia di circa 150 km in funzionamento elettrico e altrettanti con il range-extender inserito. Veicoli bimodali elettrico – endotermico Sono veicoli provvisti di due motorizzazioni del tutto indipendenti, rispettivamente elettrica alimentata a batteria ricaricabile dalla rete elettrica, ed endotermica utilizzabile in alternativa a quella elettrica per consentire percorrenze elevate. Spesso ognuna delle motorizzazioni è connessa ad un asse del veicolo, che opera quindi a trazione anteriore o posteriore a seconda del propulsore attivato. Veicoli elettrici a batteria (BEV) Sono i veicoli con la sola motorizzazione elettrica alimentata da una batteria ricaricabile esclusivamente dalla rete elettrica. L’autonomia dei modelli già in commercio da alcuni anni è compresa per le autovetture tra i 150 e i 200 km ma, soprattutto nella fascia premium di mercato, vi sono già modelli da 400-600 km, che si ritiene potrà divenire uno standard diffuso nell’arco di pochi anni, con la graduale diminuzione di costo delle batterie. Veicoli a Fuel-cell a idrogeno (FCEV) Sono i veicoli con motorizzazione elettrica nei quali la sorgente di energia elettrica per la propulsione è costituita da una cella a combustibile (a volte assistita da supercapacitori) invece che da una batteria. La cella a combustibile viene a sua volta alimentata da idrogeno, stoccato a bordo del veicolo in bombole ad alta pressione o in sistemi fisico-chimici. Il vantaggio dei FCEV è che l’autonomia dipende solo dal dimensionamento del “serbatoio” di idrogeno. Lo svantaggio è che occorre sviluppare una apposita rete di distribuzione dell’idrogeno, oggi inesistente (salvo che in piccole aree territoriali in cui l’idrogeno ha altre applicazioni industriali).

Prospettive di evoluzione dei veicoli elettrici Il ruolo dell’auto elettrica sarà dunque quello di modificare, radicalmente e per sempre, il binomio trasporti-inquinamento. Le norme comunitarie in tema di emissioni impongono un cambio di rotta: meno diesel e benzina e più batteria. A recepire questa trasformazione sono state, in primis, le case automobilistiche. Da Tesla, pioniere della mobilità elettrica, a Nissan, da Renault a Volkswagen, a BMW e Mercedes: queste aziende hanno impegnato e impegnano importanti investimenti nell’auto a batteria. “Esiste ormai una consapevolezza che il futuro della mobilità non possa che essere elettrico: la tecnologia dell’auto 100% elettrica rappresenta oggi la soluzione tecnologica innovativa più efficace per ridurre l’impatto dei trasporti sull’inquinamento ambientale” sosteneva Gabriella Favuzza, Electric Vehicles Brand Manager Renaut Italia.

E se Tesla, guidata da Elon Musk, ci ha sempre creduto nella mobilità green, portando sul mercato auto di lusso a batteria e lanciando la Model 3 con un prezzo accessibile ai più, a sorprendere sull’entrata del mercato delle vetture a batteria sono soprattutto le case tedesche. Dopo lo scandalo dieselgate, Volkswagen prova a riabilitarsi sul mercato puntando all’auto elettrica. Secondo il piano strategico “Together – Strategy 2025”, la casa automobilistica tedesca dovrebbe lanciare entro il 2025 (una data ricorrente per i prossimi step del settore automotive), 30 nuovi modelli  di auto elettriche. Anche Mercedes-Benz prepara l’offensiva per il settore. Nei mesi scorsi, infatti, è stato raggiunto un accordo quadro per il processo di modernizzazione dello storico stabilimento di Untertürkheim (Stoccarda), centro di riferimento per la rete di produzione powertrain. Azienda e Consiglio di fabbrica assicureranno una costante crescita della produzione di motori tradizionali e, allo stesso tempo, intendono prepararsi alle future sfide dell’elettromobilità.

Proprio Mercedes è pronta ad ampliare la sua gamma di veicoli, entro tre anni, con 10 nuove vetture elettriche8. “Investiamo nei motori benzina, diesel, elettrici, a metano e idrogeno: non percorriamo un’unica strada perché le realtà, nel mondo, non soltanto in Europa, sono diverse. In 28 anni di lavoro in questo settore, mai come oggi ho avuto una visione così chiara del futuro della mobilità. La Comunità Europea ha stabilito dei limiti per abbassare le emissioni e passare dai 130 grammi di emissioni per chilometro, del 2014, ai  95 grammi per chilometro nel 2021 e     nel 2025 si sta discutendo se arrivare a 68 o 72 grammi. Negli ultimi 15 anni abbiamo fatto quanto possibile dal punto di vista tecnologico per ridurre le emissioni di un motore endotermico, raggiungendo livelli considerati impensabili solo qualche anno fa. L’unica soluzione per raggiungere gli obiettivi di emissioni che ci chiede l’Europa è l’elettrico, anche attraverso l’ibridizzazione dei nostri propulsori tradizionali. Entro il 2025 una quota compresa tra il 15 e 25% delle nostre vendite globali sarà rappresenta da automobili elettriche”9 raccontava Eugenio Blasetti, Press Relations and Communication Manager Mercedes-Benz Italia. E mentre BMW migliora e amplia la gamma “i”, quella dedicata alle batterie, Opel prova a conquistare il mercato con il nuovo modello Ampera. Ad entrare in partita anche l’italiana Fca, con un’auto a guida autonoma, la Portal. Secondo un report a firma di  McKinsey  e  Bloomberg New Energy Finance (BNEF) sul futuro della mobilità sostenibile in ambito urbano, entro il 2030, il 60% delle vetture in circolazione saranno elettriche. Due auto su tre, nelle grandi città, viaggerà a batteria. A credere in un futuro della mobilità a batteria è l’Agenzia Europea per l’ambiente, che ha provato a fare delle proiezioni sul numero futuro di veicoli elettrici.

 In uno scenario ottimistico, la penetrazione delle auto elettriche, al 2050, sarà dell’80%. In uno scenario intermedio, le auto elettriche al 2050 rappresenteranno la metà del parco auto in circolazione. Si tratta, ovviamente, solo di calcoli teorici e di ipotesi, ma non è difficile credere in una rapida crescita delle vetture elettriche, visto che avranno un costo sempre più basso a fronte di prestazioni sempre migliori. Come si legge nel rapporto “Electrifying insights: how automakers can drive electrified vehicle sales and profitability10” di McKinsey, infatti, le innovazioni e la tecnologia hanno portato ad una significativa riduzione del prezzo della batteria, il cui costo è sceso dai circa 1.000 dollari/kWh del 2010 ai 227 dollari/kWh di oggi. Si stima che questa cifra continuerà a declinare, portando progressivamente il costo dei veicoli elettrici a livello delle auto convenzionali. E c’è chi si spinge oltre: secondo una ricerca condotta da Bloomberg New Energy Finance, a partire dal 2026 il costo dei veicoli elettrici sarà inferiore a quello dei veicoli endotermici, proprio grazie al crollo del prezzo delle batterie, che calerà di circa il 77% tra il 2016 e il  2030. E’ possibile che i consumatori opteranno più facilmente per una scelta più attenta all’ambiente già dal 2025, a parità di prezzo tra i due veicoli. Gilles Normand, senior vice president di Renault, è convinto che già dal 2020 i costi totali di proprietà dei veicoli elettrici saranno pari a quelli dei veicoli con motore a combustione interna convenzionali.

A contribuire ad una sempre maggiore diffusione delle vetture a batteria saranno anche le prestazioni, sempre migliori, delle auto. Già oggi alcuni modelli promettono autonomia da record: si potrebbe viaggiare fino a 500km senza dover ricaricare. Dunque le auto elettriche possono tranquillamente rappresentare, già, una valida alternativa alle macchine endotermiche, senza che l’automobilista soffra della cosiddetta ansia da ricarica. La Nissan Leaf che a breve farà il suo debutto sul mercato, tra le altre, si è dotata di un accumulatore da 60 kWh per un’autonomia fino a 550 km che le consentirebbe un uso paragonabile alle auto attuali con motore a combustione interna. L’Ampera-e offre oltre 400 km di range, mentre il coupé-suv EQ permette di percorrere 500 km con una sola ricarica11. “Le batterie agli ioni di litio sono il fulcro di numerosi applicativi tecnologici, dagli electronic device fino all’automotive. Per quest’ultimo settore, l’attuale mercato è stato stimato da Navigant Research di essere pari a 7,8 miliardi di dollari, e raggiungerà nel 2020 circa 30,6 miliardi di dollari. La ricerca delle economie di scala nella produzione di batterie può essere una soluzione per il raggiungimento di un maggior livello di penetrazione del mercato e guidare il mercato verso l’adozione di massa del veicolo elettrico attraverso la riduzione del TCO e della range anxiety.

È la domanda di batterie sempre più prestazionali a spingere la ricerca di soluzioni tecnologiche in vista di soddisfare le performance di prezzo e autonomia richieste dagli utilizzatori del veicolo elettrico”12. 1.4 La tecnologia e le auto elettriche Se è vero che negli ultimi anni abbiamo visto crescere il numero di modelli di auto elettriche disponibili sul mercato, è anche vero che restano ancora troppi dubbi sulle auto elettriche e che uno dei timori più grandi che ne blocca la diffusione è l’ansia di finire la carica elettrica della batteria. Ma la tecnologia ci viene in aiuto. Grazie alla mappatura (mapping) è possibile reperire, in tempo reale, tutte le informazioni su dove si trovano le stazioni di ricarica. Le mappe possono anche fornire altri dati sulle strade, come la pendenza e la curvatura, sul traffico e sulle condizioni metereologiche: cose, queste, che possono influire sul consumo della batteria. In questo modo i vari sistemi di bordo possono meglio pianificare i viaggi senza il rischio di rimanere senza ricarica. “La geo localizzazione e la connettività (connected car) rende fruibile all’utente finale la possibilità di sapere dove è localizzata la colonnina, se è libera e se attiva”, sostiene Andrea Soncin, Managing Director Italy Here, il cui gruppo copre ben 39 Paesi nel mondo13. Non solo. Un esempio concreto di come la tecnologia possa modificare il settore trasporti è la partnership tra Here e Ford nello sviluppo di una piattaforma per la gestione dell’utilizzo del motore elettrico nelle “Green Zone” (zone a traffico limitato). L’auto userà il motore a scoppio durante la percorrenza in autostrada o al di fuori delle zone limitate e viaggerà in modalità elettrica all’interno delle zone a traffico limitato con tutto il supporto sopra descritto per la modalità elettrica. L’ingresso della tecnologia (e dei big tecnologici) all’interno del settore della mobilità non è solo legato al mondo dell’elettrico, anche se sarà fortemente connesso al futuro delle vetture a batteria. La mobilità sarà sempre più connessa, generando importanti risparmi di denaro. Si pensi che la nuova BMW è a prova di ladro (che cattura all’interno dell’abitacolo grazie all’Internet of things). Volkswagen, invece, è a lavoro per dare la possibilità al cliente di effettuare pagamenti senza scendere dalla vettura, cliccando un solo tasto sul computerino di bordo.

Lo studio Connected Car Effect 2025, realizzato da Bosch, sostiene che i veicoli connessi arriveranno su strada prima di quanto si pensi. Entro il 2025 vedremo le prime importanti conseguenze: una forte riduzione degli incidenti, minore inquinamento ambientale e un importante risparmio di denaro (per esempio, sul fronte carburante). Secondo questo report, infatti, le auto connesse riusciranno ad evitare oltre 260.000 incidenti che provocano lesioni personali. Ci saranno 360.000 feriti in meno e circa 11.000 persone che potrebbero potenzialmente essere salvate. Importanti, dicevamo, saranno i risparmi: secondo lo studio di Bosch, grazie ai sistemi di assistenza connessa, si potranno risparmiare fino a 4,3 miliardi di euro di costi relativi ai danni ai veicoli e ottenere un minore utilizzo di materiali ed energia a seguito della riduzione delle riparazioni. A rivoluzionare il settore trasporti è poi la guida autonoma, su cui i colossi tecnologici si danno battaglia per arrivare per primi sul mercato (si guardi a Google, a Uber, a Baidu).

Le driverless car avranno certamente un impatto positivo sul settore mobilità e cambieranno radicalmente le nostre abitudini (si pensi al Car sharing con auto senza conducente), come dimostra lo studio “New urban mobility” di Fondazione Enel e Mit. Comodità, flessibilità e sicurezza saranno le parole chiave degli spostamenti in auto del futuro. A credere in un futuro driverless è, primo fra tutti, Google. Big G è quello che fino ad oggi ha investito maggiormente nel progetto dell’auto senza pilota, dando vita (negli ultimi mesi) anche ad una controllata dedicata, Waymo. Fca collabora con Google e ha fornito a quest’ultimo la Fiat Pacifica come struttura esterna per la tecnologia senza guidatore. Anche Uber ha avviato i suoi primi test delle sue auto senza pilota (a marchio Volvo) a Tempe, in Arizona e a Pittsburgh (Pennsylvania). La sperimentazione, al momento, però è stata sospesa, dopo che uno dei veicoli è rimasto coinvolto in un incidente (senza feriti, per fortuna). A giocare la partita delle vetture senza conducente è anche Baidu, il corrispondente cinese di Google, che ha portato le sue auto per effettuare i dovuti test anche in America.

Le norme e i documenti comunitari La Commissione Europea è a lavoro per una transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio. La tabella di marcia di questo cammino prevede che entro il 2050, l’UE riduca le emissioni di gas a effetto serra dell’80% rispetto ai livelli del 1990, unicamente attraverso riduzioni interne (cioè senza ricorrere a crediti internazionali). Due le tappe intermedie di questo percorso: riduzione delle emissioni del 40% entro il 2030 e del 60% entro il 2040. Come è facilmente intuibile, tutti i settori dovranno contribuire a questa trasformazione. Le emissioni provocate dal settore trasporti, in particolare, potrebbero essere ridotte di oltre il 60% rispetto ai livelli del 1990, entro il 2050. E se in questi anni la maggior parte dei progressi in questo ambito è stata possibile grazie alle migliorie dei motori a benzina e diesel, a lungo termine, un cambiamento più radicale, potrà arrivare solo attraverso i  veicoli ibridi ed elettrici. I biocombustibili e il gas naturale liquefatto (Lng) saranno sempre più utilizzati nel settore dell’aviazione e del trasporto merci su strada, dal momento che non tutti i veicoli commerciali pesanti funzioneranno ad energia elettrica in futuro. A spingere per una mobilità più sostenibile, dunque, è anche l’Europa. “L’evoluzione della politica comunitaria nel settore dei trasporti in generale e nella mobilità urbana in particolare ha avuto una crescita esponenziale, in termini di attenzione al numero di interventi di policy. Da un primo periodo in cui il settore dei trasporti era considerato secondario all’interno dalle politiche comunitarie, si è passati ad una fase più recente in cui è forte l’impegno dell’Unione Europea a stabilire policy, misure e azioni per sviluppare una mobilità sostenibile sotto tutti i punti di vista, ambientali, economici e sociali”.

Due in particolare sono le normative che dovrebbero dare un forte impulso alla diffusione delle auto elettriche: n Strategia “Europa 2020”: mira a promuovere i veicoli “verdi” incentivando la ricerca, fissando standard comuni e sviluppando l’infrastruttura necessaria. Nello specifico, nella comunicazione intitolata “Europa 2020: una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva”, la Commissione ha illustrato misure per migliorare la competitività e garantire la sicurezza energetica mediante un uso più efficiente dell’energia e delle risorse. n Strategia “Trasporti 2050”: è una roadmap per dar vita ad un settore dei trasporti competitivo, grazie ad obiettivi ambiziosi di sostenibilità, quali la riduzione del 60% delle emissioni di CO2 nei trasporti; il forte impegno sul fronte dei veicoli 100% elettrici e ibridi a basse emissioni; la presenza preponderante di veicoli ecologici nelle città europee. L’orientamento della UE verso una mobilità elettrica nasce da un percorso lungo fatto di tappe importanti. La Direttiva 2009/33/CE, del 23 aprile 2009, è relativa alla promozione di veicoli puliti e a basso consumo energetico nel trasporto stradale, che mira a ridurre le emissioni di gas a effetto serra e a migliorare la qualità dell’aria (in particolare nelle città). La stessa Direttiva sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili ha fissato un obiettivo del 10% relativo alla quota di mercato delle energie rinnovabili finalizzate al trasporto. Il Regolamento (CE) n. 443/2009 definisce i livelli di prestazione in materia di emissioni delle autovetture nuove da raggiungere entro il 2015 (sarà riesaminato entro il 2013, con obiettivo 2020: 95 g CO2/km) “Una strategia europea per i veicoli puliti ed efficienti sul piano energetico” del 28 aprile 2010 indica quali dovrebbero esssere le linee di sviluppo per i veicoli verdi, tra i quali i veicoli ad alimentazione elettrica e ibrida, promuovendo: n il sostegno alla ricerca e all’innovazione, n gli incentivi (troppo diversificati tra gli Stati membri); n la standardizzazione dell’interfaccia veicolo/rete n il potenziamento dell’infrastruttura di ricarica pubblica e privata n integrazione con le politiche pro-fonti rinnovabili.

Il Libro bianco europeo “Tabella di marcia verso uno spazio unico europeo dei trasporti – Per una politica dei trasporti competitiva e sostenibile” del 28 marzo 2011 ha esortato a mettere fine alla dipendenza dal petrolio nel settore dei trasporti. Di conseguenza la Commissione si è impegnata a elaborare una strategia sostenibile per i combustibili alternativi e la relativa infrastruttura. Il Libro bianco ha fissato inoltre un obiettivo del 60% in materia di riduzione delle emissioni di gas serra nel settore dei trasporti, da conseguire entro il 2050. A contribuire alla stesura delle norme europee, anche la relazione del gruppo di alto livello CARS 21 del 6 giugno 2012, che ha indicato che la mancanza di un’infrastruttura per i combustibili alternativi armonizzata a livello dell’Unione ostacola l’introduzione sul mercato di veicoli alimentati con combustibili alternativi e ne ritarda i benefici per l’ambiente. Dagli spunti dati, ne è nata una comunicazione della Commissione dal titolo “CARS 2020: piano d’azione per un’industria automobilistica competitiva e sostenibile in Europa”, in cui l’Unione prova a fare proprie le principali raccomandazioni del gruppo di alto livello CARS 21, presentando un piano d’azione che provi ad armonizzare le rete di ricarica europea.

DAFI, la direttiva sui carburanti alternativi Il 22 ottobre 2014 è stata pubblicata la Direttiva 2014/94/EU del Parlamento Europeo e del Consiglio sulla realizzazione di un’infrastruttura per i combustibili alternativi. Si tratta di un documento che prova ad inquadrare le principali opzioni in materia di combustibili alternativi, come l’elettricità, l’idrogeno, i biocarburanti, il gas naturale, in forma di gas naturale compresso (Gnc), gas naturale liquefatto (Gnl), o gas naturale in prodotti liquidi (Gtl), e gas di petrolio liquefatto (Gpl). La direttiva, poi, individua nell’assenza di un’infrastruttura per i combustibili alternativi il principale ostacolo alla diffusione sul mercato dei veicoli elettrici o comunque alimentati da combustibili alternativi. Sempre la mancanza di una infrastruttura, si legge nel documento della Commissione, impedisce la realizzazione di economie di scala sul versante dell’offerta. È necessario, dunque, dar vita ad una rete infrastrutturale idonea, puntando soprattutto sulle colonnine di ricarica per auto elettriche. È con questo obiettivo che la Direttiva stabilisce un quadro comune di misure per la realizzazione di un’infrastruttura, stabilendo anche i requisiti minimi per la costruzione dei punti di ricarica per veicoli elettrici e ad idrogeno.

Le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla direttiva dovevano essere attuate dagli Stati Membri entro il 18 novembre 2016 (in Italia la direttiva è stata recepita con il Decreto legislativo 257 del 16/12/16). Concentrandoci sulla mobilità elettrica, la Direttiva dispone che gli Stati membri garantiscano la creazione, entro il 31 dicembre 2020, di un numero adeguato di punti di ricarica accessibili al pubblico in modo da garantire che i veicoli elettrici circolino almeno negli agglomerati urbani/suburbani e in altre zone densamente popolate e, se del caso, nelle reti stabilite dagli Stati membri. Ogni Stato membro, poi, può anche adottare delle misure volte a incoraggiare e agevolare la realizzazione di punti di ricarica non accessibili al pubblico. E ancora. La Direttiva 2014/94/EU del Parlamento Europeo stabilisce che gli Stati membri assicurino che tutti i punti di ricarica di potenza standard a corrente alternata (AC) per i veicoli elettrici, escluse le unità senza fili o a induzione, introdotti o rinnovati a decorrere dal 18 novembre 2017 siano muniti, a fini di interoperabilità, almeno di prese fisse o connettori per veicoli del tipo 2, quali descritti nella norma EN62196. Mantenendo la compatibilità del tipo 2, tali prese fisse possono essere munite di dispositivi quali otturatori meccanici. A decorrere dal 18 novembre 2017, poi, i punti di ricarica di potenza elevata a corrente continua (DC), devono esser muniti, sempre a fini di interoperabilità, almeno di connettori del sistema di ricarica combinato “Combo 2”, quali descritti nella norma EN62196-3. Oltre a garantire le infrastrutture di ricarica per auto elettriche e altri veicoli da strada, gli Stati membri dovranno assicurare che sia valutata nei rispettivi quadri strategici nazionali la necessità di fornitura di elettricità lungo le coste per le navi adibite alla navigazione interna e le navi adibite alla navigazione marittima nei porti marittimi e nei porti della navigazione interna. In base alla direttiva, tale infrastruttura dovrà essere installata entro il 31 dicembre 2025, quale priorità nei porti della rete centrale della TEN-T, e negli altri porti. Faranno eccezione i Paesi in cui non ci sia alcuna domanda e i costi siano sproporzionati rispetto ai benefici.

Inquinamento

Inquinamento ambientale: un nemico invisibile che attacca su più fronti. A partire dall’aria che respiriamo: il nostro Paese si è già aggiudicato la maglia nera da parte dell’Agenzia europea dell’ambiente (Eea). Quest’anno, infatti, i blocchi del traffico per lo sforamento dei livelli massimi di PM 10, il particolato in cui si celano le ancor più temibili polveri sottili (il PM 2,5), sono scattati in molte città della penisola addirittura prima di accendere i termosifoni. E il satellite 5P, che ha fornito la prima mappa degli inquinanti dell’atmosfera, ha identificato nella Val Padana una delle aree più inquinate d’Europa per le elevate concentrazioni di monossido di carbonio. Allarme rosso anche da parte di Greenpeace: a novembre ha monitorato i valori del biossido d’azoto nei pressi di dieci scuole dell’infanzia ed elementari di Milano, scoprendo che erano ampiamente sopra il valore individuato dall’Oms per la protezione della salute. Già, perché i veleni dispersi nell’aria sono temibili killer, da cui non possiamo difenderci chiudendoci tra le mura domestiche: anche qui si cela un esercito di inquinanti, comprese le onde elettromagnetiche emesse dal wi-fi e dal pc, ormai immancabili in ogni famiglia, o il rumore che non sempre riusciamo a chiudere fuori dalla porta. Che fare allora? In queste pagine i nostri esperti rispondono a tutti i quesiti sulle insidie dei vari tipi di inquinamento e sui modi per fronteggiarle al meglio.

QUALI SONO GLI EFFETTI DELLO SMOG?

«I veleni dispersi nell’aria hanno come bersaglio privilegiato le vie respiratorie: creano uno stato infiammatorio cronico delle mucose di naso, gola e bronchi. Nello stesso tempo, le rendono più reattive e sensibili agli allergeni, come pollini e acari», spiega il professor Alessandro Miani, presidente della Società italiana di medicina ambientale (simaonlus.it) e docente di prevenzione ambientale all’Università di Milano. «Il risultato è una maggior incidenza di raffreddori, mal di gola, bronchiti e broncopolmoniti, ma anche di riniti e asma allergico». Ma i problemi non si fermano qui. Anche se il fumo di sigaretta è il primo killer dei polmoni, uno studio pubblicato sul Lancet sostiene che a ogni aumento di 10 microgrammi di PM 10 nell’aria il rischio di tumore aumenterebbe del 22%. «Una frazione del particolato (il black carbon), inoltre, è un nemico anche per il cuore perché riesce a superare la barriera degli alveoli e ad infiltrarsi nel sangue, aumentando la frequenza cardiaca e la pressione e facilitando, in chi già soffre di malattie del cuore, la formazione di trombi, con un aumento così dei casi di infarto o ictus», aggiunge il professor Miani. Sembrerebbe a rischio anche la salute del cervello: secondo una recente ricerca dell’università di Lancaster, pubblicata sulla rivista scientifica Pnas, i veleni delle città penetrano anche tra neuroni e sinapsi. Sul banco degli imputati i componenti metallici del particolato ultrafine, che possono addirittura essere tra i responsabili dell’Alzheimer.

CHE COSA SI PUÒ FARE PER RIDURRE L’INALAZIONE DI POLVERI SOTTILI &CO.?

«Bisognerebbe evitare di camminare nelle strade molto trafficate, dove oltre alle polveri sottili si concentrano gas di scarico come il benzene o idrocarburi policiclici aromatici, come il benzopirene che è cancerogeno, cercando percorsi alternativi dove la viabilità è meno intensa», suggerisce la professoressa Paola Fermo, docente di chimica analitica dell’università di Milano. «Prima di fare attività fisica o di andare in bicicletta, soprattutto se si vive in una città del Nord dove l’allerta smog è spesso in agguato, meglio verificare se la qualità dell’aria lo permette». Lo si può fare andando sui siti dell’Arpa della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia Romagna che riportano bollettini, aggiornati in tempo reale, con i tassi dei maggiori inquinanti. Oppure si può consultare aqicn.org, sito che fa parte del progetto World Air Quality Index e che fornisce, in tempo reale, i dati sulla qualità dell’aria di più di 60 città italiane.

LA MASCHERINA, INDOSSATA IN BICI O IN MOTORINO, È UTILE?

«Purtroppo no», risponde la professoressa Fermo. «Non blocca il particolato, nemmeno quello più grossolano e anche quelle con filtro Epa che dovrebbero trattenere le particelle fini, di fatto si dimostrano poco efficaci. Andare in bici o a camminare dopo che ha piovuto, invece, riduce in parte i rischi perché abbatte per lo meno il PM 10, e quindi le particelle più grossolane, anche se non azzera quelle fini. Queste vengono invece spazzate via dal vento che, quando spira, decreta l’ok a fare attività fisica all’aria aperto. Comunque, per evitare sorprese, conviene sempre consultare i bollettini dell’aria e se è allarme smog, meglio “ripiegare” sulla palestra.

IN AUTO SI È PIÙ PROTETTI DALLO SMOG?

«Sì, a patto di rispettare alcune precauzioni: innanzitutto curare la manutenzione dei filtri di aerazione», spiega la professoressa Fermo. «In coda o sotto gallerie molto trafficate conviene mettere in funzione il ricircolo d’aria, spegnendolo però non appena si esce dall’ingorgo. L’abitacolo va poi arieggiato per evitare che al suo interno si concentri l’anidride carbonica che i passeggeri emettono respirando e che, senza un ricambio d’aria, viene nuovamente inalata, dando il via a sonnolenza e abbassamento dei riflessi».

CI SI PUÒ DISINTOSSICARE DAGLI INQUINANTI INALATI?

«Bisogna potenziare il lavoro dei naturali sistemi di detossificazione dell’organismo», suggerisce il dottor Antonio Maria Pasciuto, presidente di Assimas, Associazione italiana di medicina ambiente e salute (assimass.it). «Per facilitare il lavoro di fegato e intestino, perciò, a tavola via libera a frutta e verdura bio, legumi e cereali integrali, fonti di fibre e di antiossidanti, mentre per incrementare la diuresi e mantenere in perfetta efficienza i reni sì ad acqua e succhi naturali. Preziosa anche la curcuma, una spezia che migliora il lavoro del fegato: si può usare per insaporire i piatti o aggiungerne un pizzico alle tisane. Ok anche all’attività fisica regolare di tipo aerobico e ad almeno una sauna settimanale: favoriscono l’eliminazione delle tossine con la sudorazione. Per facilitare lo smaltimento dei metalli pesanti, si può ricorrere a integratori a base di zeolite: è un minerale che, grazie al suo effetto “scavenger” (spazzino), attraversa il tratto gastrointestinale senza essere assorbito, ma lega mediante scambio cationico i metalli pesanti, eliminandoli poi con le feci. Inoltre, ha un’azione detossificante, assorbente e antiossidante che riduce il danno da radicali liberi (per i dosaggi è bene chiedere consiglio al medico). Per controbattere l’infiammazione cronica e i processi di ossidazione innescati dai veleni che si inalano con l’aria sì anche alla vitamina C (1-2 grammi al giorno), a integratori a base di resveratrolo (100- 200 mg al giorno) o di glutatione: questi ultimi su consiglio e prescrizione del medico».

ANCHE L’ARIA DI CASA È A RISCHIO?

Può essere più inquinata di quella outdoor: può contenere un mix di sostanze chimiche ad alto rischio che esalano dall’ambiente domestico. «Tra le più temibili c’è la formaldeide, rilasciata dai mobili in truciolato, ma usata a volte anche come disinfettante e impregnante dei tessuti e del legno: l’International Agency for Research on Cancer (larc) l’ha classificata come sostanza cancerogena e responsabile di irritazioni delle mucose delle vie aeree, tosse, congiuntivite», spiega il professor Miani. «Non è però la sola: nell’aria degli appartamenti possono celarsi i vapori liberati dai prodotti per l’igiene della casa, soprattutto quelli profumati, le muffe, gli acari, e, non ultime, le onde elettromagnetiche emesse da wi-fi, pc, telefonini, babyphone e forni a microonde ormai onnipresenti nelle case italiane e temibili al pari degli altri inquinanti. Gli studi più recenti hanno dimostrato che queste radiazioni non hanno solo effetti termici. Producono anche un aumento dei radicali liberi, quindi dello stress ossidativo, e possono determinare anche rotture cromosomiche e alterazioni del Dna», spiega il professor Miani. «Secondo la larc sono potenzialmente cancerogene e non a caso l’Oms ha incluso l’elettro- smog tra le principali emergenze del Pianeta».

COME DIFENDERSI DAGLI INQUINANTI INDOOR?

«Bisogna arieggiare sempre i locali, indipendentemente dai tassi degli inquinanti esterni, aprendo le finestre 5 minuti, 3-4 volte al giorno, nelle ore di minor traffico», suggerisce la professoressa Fermo. «La temperatura domestica va mantenuta sui 19-21 °C e il tasso di umidità al 55% per evitare il proliferare di muffe, protozoi e batteri. Inoltre, occorre curare con attenzione la manutenzione della cappa di aspirazione della cucina e i filtri dei condizionatori». Attenzione anche alle pulizie: «Vanno fatte a finestre aperte, evitando mix di prodotti e utilizzando ogni detergente alle dosi consigliate», aggiunge il professor Miani. «Ok anche all’aspirapolvere, ma a patto che sia dotato di filtro Hepa, in grado di raccogliere le particelle con un diametro pari a 2,5 micron, e senza sacchetto.I sacchetti, se non vengono sostituiti frequentemente, vaporizzano nell’aria le polveri sottili, trasformandole in un pericoloso aerosol».

PUÒ “PURIFICARE” L’ARIA DELL’APPARTAMENTO?

«Sì, con un purificatore d’aria ad acqua», suggerisce il professor Miani. «È un apparecchio che aspira l’aria, la lava e la filtra con un filtro Hepa, liberandola da polveri con dimensioni sino ad 1 micron, pima di rimetterla in circolo. Nella scelta, però, è bene orientarsi su un prodotto validato scientificamente da un ente pubblico o no profit. Da evitare invece candele profumate e colorate per l’ambiente, soprattutto se di origine cinese: emanano metalli pesanti ed essenze profumate (limone- ne, in primo luogo) che si aggregano con altri inquinanti presenti in casa. No anche ai bastoncini d’incenso, spesso fonte di formaldeide». «Se si teme che in casa ci siano fonti nascoste di questa sostanza, però, se ne possono verificare i valori con un semplice test enzimati (Drager Bio-Check formaldeide) acquistabile on line», suggerisce il dottor Antonio Maria Pasciuto. «Se sono superiori a quelli considerati ideali, se ne può ridurre la concentrazione, mettendo in casa delle piante mangia- smog (vedi in basso) che riescono a eliminare anche ulteriori inquinanti domestici», conclude il professor Miani.

Industrializzazione della riqualificazione energetica dell’edilizia Iniziamo con un cavallo di battaglia storico dell’ambientalismo. Parliamo dei programmi per aumentare l’efficienza dei consumi di energia. Pensiamo solo alla gigantesca opera di riqualificazione energetica “spinta” del parco edilizio che ci attende nei prossimi decenni, fattibile solo grazie a radicali innovazioni delle modalità di intervento. Una discontinuità che è tanto più necessaria, se si considera il calo negli ultimi decenni della produttività del lavoro nel settore costruzioni, a fronte invece di un raddoppiamento di questo indice nel settore manifatturiero. A migliorare la situazione contribuirà la digitalizzazione nelle fasi della progettazione, costruzione e manutenzione degli immobili. Una delle applicazioni più interessanti è l’industrializzazione della riqualificazione che consente una drastica diminuzione dei costi e dei tempi di intervento (dieci giorni per un piccolo edificio). Il notevole aumento della produttività porterà a una riduzione relativa degli occupati per singolo edificio e a una loro redistribuzione in altri comparti manifatturieri. Ma attenzione: parliamo di soluzioni che permettono di aggredire più velocemente e con maggiori risparmi di energia l’amplissimo mercato delle costruzioni con elevate dispersioni.

Oggi si riqualifica annualmente solo l’1% delle superfici abitate mentre occorre passare al 3% per raggiungere gli obiettivi climatici al 2030. L’aumento degli interventi, grazie a soluzioni innovative e a nuovi modelli di business, crea opportunità di lavoro. Secondo alcune stime (Bipe) una loro applicazione su larga scala in Europa potrebbe creare 2 milioni di occupati. È evidente però che per trasformare un comparto come quello dell’edilizia, lento nel recepire le innovazioni, sarà necessario un input da parte dello Stato in modo da favorire la riqualificazione delle imprese interessate. Un percorso virtuoso, che peraltro alcune eccellenze già hanno iniziato a esplorare. La sfida della mobilità elettrica E veniamo al futuro della mobilità, dove s’intravedono conseguenze occupazionali decisamente più ampie. In ambito urbano è ragionevole immaginare, in Europa e non solo, una contrazione del numero complessivo di auto in circolazione sempre più condivise e senza guidatore e un rapido declino di quelle a combustione interna. Le strategie climatiche accentuano l’importanza del passaggio alla mobilità elettrica. Le auto vendute nel 2025 nell’Ue dovranno raggiungere un livello di emissioni di 68-78 grammi CO2 /km (35-40% in meno rispetto alle emissioni delle nuove auto in Italia) raggiungibili con una quota di veicoli elettrici del 15-25%.

Per quanto riguarda gli scenari futuri, si assiste a una continua corsa al rialzo. Anche alcune compagnie petrolifere ormai ritengono che alla fine del prossimo decennio si avranno 100 milioni di auto su strada, con chiare implicazioni sulle vendite di greggio. «La General Motors crede in un futuro tutto elettrico» ha dichiarato il mese scorso Mark Reuss, presidente di Gm North America. Parliamo di un mercato di 2 mila miliardi di dollari l’anno, nel quale le auto elettriche rappresentano per ora solo l’1%, ma che è destinato a drastici cambiamenti. Con quali conseguenze occupazionali? Ancora una volta, dipende dalle scelte adottate dai singoli produttori e dalle politiche dei vari paesi. L’automazione dei processi produttivi ha già portato a una forte riduzione del lavoro necessario e il passaggio all’auto elettrica comporterà un’accelerazione di questo processo. Parliamo di un numero molto inferiore di componenti da assemblare (200 contro 1.400) e di una semplificazione dei processi di lavorazione. Occorre riflettere sulla possibilità di cogliere nuove opportunità. Le case automobilistiche, per esempio, si stanno già attrezzando per fornire servizi di mobilità sempre più articolati e quasi tutte hanno avviato programmi per il passaggio all’elettrico.

Ma anche se parliamo in Europa di investimenti di decine di miliardi di euro, le strategie paiono troppo caute. Perché a fronte di una riduzione dell’occupazione con il passaggio all’elettrico, c’è l’ulteriore concreto rischio di uno spostamento del baricentro produttivo verso l’Asia. La Cina, incapace di competere sul fronte dei veicoli convenzionali, sembra voler tentare il sorpasso puntando sull’elettrico. Nel giro di soli tre anni è divenuta leader nel settore arrivando a coprire, nel secondo trimestre 2017, il 44% delle vendite mondiali di questi veicoli ed ha annunciato di voler bandire la vendita di auto a benzina e gasolio. Com’è noto, uno dei fattori decisivi in questa corsa riguarda la produzione dei sistemi di accumulo che al momento incidono per il 30-50% sul costo dei veicoli elettrici. Pechino si sta attrezzando velocemente, tanto che nel 2022 ospiterà il 65% della capacità produttiva mondiale delle batterie al litio. Considerato il valore strategico dell’accumulo, occorre recuperare il terreno perso puntando su progetti sovranazionali, sul modello Airbus utilizzato per l’aviazione. Una direzione che è sollecitata dalla Commissione Europea la quale intende finanziare con 2 miliardi di euro l’avvio di questo percorso. E l’Italia dovrebbe guardare con attenzione ai suoi possibili sviluppi. Va detto poi che l’incredibile rapidità della riduzione del prezzo degli accumuli taglia fuori dai giochi l’alimentazione a idrogeno con celle a combustibile su cui puntano i giapponesi e metterà in difficoltà anche le alimentazioni alternative come il Gpl e il metano, punti di forza in Italia.

Creare le condizioni per la rivoluzione elettrica anche in Italia Facciamo adesso una riflessione più specifica sul nostro Paese, partendo da alcuni dati. Innanzitutto dal ruolo positivo della diffusione di veicoli elettrici, considerato il contributo nel ridurre le emissioni climalteranti e nel combattere il grave inquinamento dei nostri centri urbani. Già con l’attuale mix di generazione elettrica le emissioni di CO2 risultano inferiori a quelle degli altri veicoli. Un vantaggio destinato a crescere nel tempo, considerando che le rinnovabili copriranno almeno il 50% della domanda elettrica alla fine del prossimo decennio. Peraltro, la presenza di milioni di mezzi elettrici rappresenterà un sistema decentrato di accumulo molto utile nel gestire la rete grazie a infrastrutture di ricarica bidirezionali. L’urgenza di un salto di qualità è sottolineata anche nel rapporto sulla “Decarbonizzazione dell’economia italiana” appena pubblicato da Rse: al 2030 le attuali politiche sul trasporto e l’edilizia consentirebbero infatti di ridurre solo del 24% le emissioni rispetto al 2005, contro il taglio del 33% che l’Italia dovrà raggiungere.

Il secondo elemento di riflessione riguarda il ridimensionamento industriale dell’auto. Nel 2016, la produzione di automobili in Italia è stata di 713 mila unità, valori più che dimezzati rispetto a venticinque anni fa. Occorre puntare su strade nuove, e l’elettrico potrà essere decisivo per un rilancio. E qui veniamo al terzo dato, riferito proprio alla fotografia della mobilità elettrica, il cui ruolo è oggi insignificante con 1.370 veicoli venduti nel 2016, pari allo 0,07% delle vendite totali. Eppure non è sempre stato così. Fino al 2000 il nostro paese aveva il record di diffusione della mobilità elettrica in Europa, con 21 mila tra auto, furgoni e quadricicli, 284 mila ciclomotori e biciclette a pedalata assistita e mille minibus o bus elettrici e ibridi. Tutti mezzi in larga parte prodotti nel nostro Paese. Analogamente al solare e all’eolico, che in quegli anni vedevano tecnologie di imprese italiane poi finite nel nulla, la vitalità industriale sull’elettrico si è spenta nell’assenza di politiche nazionali e locali coordinate. Ulteriori considerazioni meritano poi le realtà imprenditoriali coinvolgibili in un progetto per l’auto del futuro. Esistono 2.500 aziende della componentistica auto che in passato operavano prevalentemente per la Fiat che si sono riorganizzate anche come fornitrici di case estere. Ma parliamo anche di grandi aziende come St Microelectronics, che tra i suoi clienti ha marchi come Tesla, cui fornisce i semiconduttori di potenza per gli inverter dei motori. Citiamo Magneti Marelli, società di punta nella componentistica elettrica, che il gruppo Fca cui appartiene sembra voglia vendere e che potrebbe diventare un punto nazionale di aggregazione, magari con un’iniezione di capitale pubblico. Ci sono poi diverse piccole e interessanti realtà che cercano di ricavarsi uno spazio nel percorso di diffusione della mobilità elettrica. Non possiamo non puntare i riflettori sull’auto senza guidatore. L’esperienza ventennale della VisLab, che dopo l’acquisizione da parte dall’americana Ambarella ha visto crescere fino a cinquanta gli ingegneri del team impegnato a Parma, è un ottimo esempio delle perle che abbiamo a disposizione.

E naturalmente dobbiamo parlare di Fca, che con i suoi 80 mila dipendenti rimasti in Italia, rappresenta il principale datore di lavoro industriale nel Paese. Marchionne, paradossalmente, continua ostinatamente e sciaguratamente a non credere alla mobilità elettrica. Una miopia che rischia di far fare alla Fca la fine della Kodak e che si trasmette ai settori decisionali del Paese. Fa impressione leggere, per esempio, il “Rapporto sul settore automotive” promosso dalla Commissione Industria del Senato e pubblicato nel luglio 2015 che nelle sue 239 pagine non cita l’auto elettrica. Alla luce di questo quadro, possiamo immaginare un percorso virtuoso che consenta alle nostre aziende di sfruttare i nuovi scenari che si aprono? Guardare alla Cina? Esiste un forte tessuto imprenditoriale che permette di ipotizzare uno sviluppo della mobilità elettrica, anche creando sinergie internazionali. Se poi si realizzerà il megaprogetto europeo sugli accumuli, ci si potrà concentrare sulla costruzione dei mezzi, puntando su qualità, “Italian Style” e guida autonoma. Analogamente alla Cina, che sta spingendo sull’elettrico per conquistare uno spazio sulla scena mondiale dell’auto, l’Italia potrebbe uscire dal declino proprio imboccando con decisione questa strada. Magari con capitali cinesi. Ricordiamo che Pechino ha investito sia in Tesla sia in start-up elettriche statunitensi: Faraday, Lucid, Fisker e Nio. Per non parlare della Volvo che, acquisita in piena crisi dalla cinese Geely, vive ora un rilancio con fatturato e occupati in forte crescita e che dal 2019 venderà solo modelli elettrici. Un’alleanza intelligente potrebbe aprire spazi interessanti anche nell’enorme mercato cinese che quest’anno riguarderà ben 29 milioni di vetture (un terzo del totale mondiale). Gli altri percorsi possibili verso un ruolo nella mobilità elettrica sono rappresentati da un rinsavimento di Fca, dall’ingresso di qualche innovativo e forte player finanziario/imprenditoriale o dalla decisione di mettere in gioco un forte impulso pubblico. Un target chiaro per il 2030 È evidente che per smuovere le acque servirebbe un chiaro indirizzo da parte della politica che, succube in passato della Fiat, oggi è la grande assente. Mentre Francia, Regno Unito, Olanda, Norvegia, Indonesia, Cina e India ipotizzano la fine della vendita delle auto a combustione interna, questo potente messaggio non è ancora venuto dall’Italia (salvo una timida indicazione al Governo da parte del Senato). Eppure, una decisione di questo tipo è importante perché invia un segnale chiaro alle imprese, orientando importanti investimenti. E anche Fca dovrebbe rivedere le proprie strategie. Fissare una data, il 2030, chiaramente non basta. Occorre individuare una politica che affronti tutti gli aspetti necessari al decollo dell’elettrico. Un piccolo segnale di attenzione è venuto dal tavolo di Raffaele Tiscar presso la Presidenza del Consiglio, ma manca ancora una strategia complessiva. Sarebbe auspicabile un impegno mirato del Governo sul versante della ricerca (una sorta di “Industria 2025”) per offrire alle nostre imprese l’opportunità di rafforzarsi in questo settore strategico e andrebbe dato slancio alla realizzazione delle infrastrutture di ricarica, un settore in cui fortunatamente l’impegno dell’Enel e di altre imprese potrebbe colmare nel giro di pochi anni lo storico ritardo. Come pure andrebbe avviata un’intelligente politica fiscale, mentre gli Enti Locali dovrebbero muoversi in modo coordinato e incisivo per favorire la mobilità elettrica e condivisa. Insomma, la corsa è partita e non si potrà fermare. Dobbiamo solo capire se l’Italia vorrà cogliere le enormi opportunità di questa trasformazione e delineare i contenuti di una strategia aggressiva.